Per la Cassazione il feto nascente è persona

Il feto inizia a essere considerato persona dall’inizio del travaglio, e non già dal successivo momento del distacco dall’utero materno. Questo il concetto espresso da una recentissima sentenza, in risalto sulle pagine dei quotidiani nazionali e destinata ad una cassa di risonanza tale da scatenare le esultazioni dei pro life. la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che il feto, anche se ancora nell’utero, durante il travaglio, deve essere considerato una persona e, di conseguenza, ha gli stessi diritti di un bambino già nato.

Pertanto, l’ostetrica negligente che ne ha provocato la morte risponderà di omicidio colposo e non di aborto colposo.

Le Eminenze Grigie hanno così definitivamente consacrato la condanna per omicidio dell’ostetrica, per non aver adeguatamente monitorato il battito cardiaco di un feto mentre la madre era in travaglio. Nel caso vagliato il bimbo è nato morto a causa della sofferenza fetale durata un segmento temporale apprezzabile, come stabilito dai periti. L’ostetrica è stata ritenuta responsabile di omicidio colposo «per imprudenza, negligenza e imperizia» in relazione alla morte del feto durante il parto, in quanto, secondo l’accusa, non aveva «tempestivamente» rilevato la «sofferenza fetale» che si era protratta per almeno mezz’ora – cosa che invece avrebbe «imposto di accelerare al massimo la fase espulsiva e l’estrazione del feto» – e aveva anche formulato al ginecologo «rassicurazioni» sul «regolare andamento del travaglio». Il feto era quindi «nato morto per asfissia perinatale», laddove, se il monitoraggio fosse stato adeguato, il bambino si sarebbe potuto salvare ricorrendo al cesareo e/o ad adeguate occorrenti manovre.

Dopo le sentenze conformi di condanna emesse dai giudici di merito, l’ostetrica, aspirante ad una condanna più mite, aveva presentato ricorso alla Suprema Corte, lamentando «l’errata qualificazione giuridica» del fatto, da lei ritenuto aborto colposo e non omicidio colposo, sollecitando anche una trasmissione degli atti alla Consulta.

La Cassazione, con verdetto n. 27539/2019 della Quarta Sezione Penale, ha confermato la condanna per omicidio colposo (e non interruzione involontaria di gravidanza come richiesto dal legale dell’imputata) a un anno e nove mesi di reclusione, pena sospesa, nei confronti dell’ostetrica, alla quale sono state negate le attenuanti generiche per aver manipolato poi la cartella clinica della partoriente, allegando il tracciato di un’altra gestante.

Il pronunciamento ha permesso ai Giudici di legittimità di prendere una netta posizione su un tema storicamente dibattuto.

Rischia dunque una condanna per omicidio colposo il sanitario che compie errori durante il travaglio e il parto di una donna, tanto da non impedire la morte del feto: la Cassazione ha stabilito che in casi del genere è legittimo contestare il reato di omicidio colposo e non, invece, la fattispecie di aborto colposo, contemplata dalla legge 194, per cui sono previste pene ben più lievi, in quanto a detta dei Giudici Supremi, il feto, «benché ancora nell’utero», durante il travaglio della gestante, nel momento cioè della «transizione dalla vita uterina a quella extrauterina», deve essere considerato un «uomo».

Gli Inquilini del Palazzaccio nella motivazione della sentenza chiariscono senza dubbio alcuno che durante il travaglio il feto è già persona. E nel tragitto logico – motivazionale il riconoscimento dello stato di “persona” implica un corollario indefettibile, da cui è impossibile prendere le distanze: se la vita umana comincia nel momento in cui ha inizio il travaglio e non successivamente al distacco del feto dall’utero, la morte di un bambino in questa fase non può essere considerata una semplice interruzione di gravidanza – come nel caso di un aborto – ma dev’essere giudicato come omicidio colposo, con equiparazione della morte del feto a quella di un essere umano già nato.

Nel percorso di qualificazione del fatto come omicidio colposo, i Giudici hanno ribadito che «il reato di omicidio e di infanticidio-feticidio tutelano lo stesso bene giuridico, e cioè la vita dell’uomo nella sua interezza. Ciò si desume anche dalla terminologia adoperata dall’art. 578 del codice penale (norma che punisce per omicidio la madre che «cagiona la morte del figlio, immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto) – “cagiona la morte” – identica a quella adottata per il reato di omicidio, in quanto evidentemente “si può cagionare la morte soltanto di un essere vivo”. Il legislatore, quindi, ha sostanzialmente riconosciuto anche al feto la qualità di uomo vero è proprio, giacché “la morte è l’opposto della vita”. I due reati, quindi, vigilano sul bene della vita umana fin dal suo momento iniziale e il dies a quo, da cui decorre la tutela predisposta dall’uno e dall’altro illecito è il medesimo». Con la locuzione «durante il parto» – ricorda la Cassazione – l’art. 578 cod. pen. specifica cosa sia da comprendere nel concetto di «uomo» quale soggetto passivo del reato di cui all’art. 575 cod. pen., in cui «deve essere incluso anche il «feto nascente». Al riguardo, infatti, la Corte ricorda e precisa che il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell’inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell’autonomia del feto, coincidendo quindi con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina.

Ora se il nascente vivo, nel momento del travaglio, non è più un feto, bensì già un bambino, un uomo a tutti gli effetti giuridici, la logica conclusione e che la sua uccisione volontaria costituisce omicidio o feticidio, qualunque sia stata la durata della gestazione. Prima di questo limite la vita del prodotto del concepimento è tutelata da un altro reato: il procurato aborto.

Nella ormai nota sentenza 27/1975, la Corte Costituzionale – non senza equivoche conclusioni che aprirono di fatto la strada all’aborto in Italia – aveva riconosciuto l’embrione come titolare dei diritti umani inviolabili previsti, riconosciuti e garantiti dall’art. 2 della Costituzione. Ne aveva però escluso la personalità. Ora se l’embrione non è una cosa o un oggetto, allora è un soggetto. Quello che nel 1975 è stato messo in dubbio è stato riaffermato dopo un travagliato approdo interpretativo, in quanto non possono esistere nel nostro ordinamento individui appartenenti alla specie umana che non siano riconosciuti come persone.

L’inquietudine giuridica secondo cui si è sempre evitato di affermare chiaramente questa verità sembra oggi essersi sopita con la storica sentenza in commento, che, con estrema lucidità, riconosce la personalità del feto. Se il feto dunque è “persona” allora lo è il concepito in quanto tale, senza distinzioni durante il suo sviluppo coordinato, continuato, graduale e finalisticamente orientato. Diversamente opinando, ci troveremmo davanti ad una violazione del principio di solidarietà e uguaglianza (artt. 2 e 3 Cost.), in quanto sarebbero proprio le “condizioni personali” ad escludere la parità di trattamento e il riconoscimento dei diritti umani, primo fra tutti il diritto alla vita. Il messaggio fatto veicolare dai Giudici Supremi è che la tutela della vita non può soffrire lacune e deve essere protetto dalla legge anche il “viaggio” dei nascituri nel canale uterino.

Orbene, il quadro normativo attuale sembra essere il seguente: nel primo trimestre della gravidanza il bambino nel grembo della madre non è considerato una persona meritevole di tutela, tant’è che la legge Italiana consente la sua violenta soppressione per qualsiasi motivo e a spese del servizio sanitario nazionale. Lo stesso bambino comincia a godere di qualche minima protezione improvvisamente, allo scoccare del 91mo giorno, ma è ancora lungi dall’essere considerato un essere umano, tant’è che può essere eliminato in presenza di una diagnosi di malformazione (anche solo presunta) che possa mettere in pericolo l’equilibrio psico-fisico della gestante. Sempre il medesimo bambino, quando sussiste per lui la possibilità di vita autonoma al di fuori dell’utero materno, che non è specificata dalla norma abortista e nemmeno può esserlo viste le innumerevoli variabili che la determinano, può essere ucciso solo in caso di grave pericolo per la vita della madre e comunque il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la sua vita (sic!). Pertanto, è possibile affermare, che il bambino non ancora nato non sia considerato affatto una persona, ma un oggetto nelle mani della madre e dello Stato che all’aumentare di peso e dimensioni comincia ad acquisire, secondo logiche astratte, qualche precario diritto, ma che sempre tale rimane. È solo quando lo stesso identico bambino cresciuto per nove mesi nel seno della madre viene alla luce che finalmente acquisisce lo status di essere umano per la legge Italiana (almeno fino ad ora …).

La Cassazione, con tale pronunciamento, ha stabilito che anche il bambino che sta transitando dalla vita uterina a quella extrauterina è da considerare un uomo a tutti gli effetti. Benissimo! Ma occorre prendere atto della totale mancanza di coerenza e logica di chi pretende di stabilire a colpi di sentenze chi debba essere considerato un essere umano avente tale dignità e chi no, prescindendo dalla natura delle cose.

Che l’essere umano sia tale fin dal concepimento e dunque meritevole di tutela giuridica lo dimostra la scienza, il buon senso, la logica, l’evidenza dei fatti. L’essere umano è da rispettare, come una persona, fin dal primo istante della sua esistenza, sin da quando si inaugura una nuova vita che si svilupperà per proprio conto.

C’è dunque da aver paura di un sistema che pretende di modificare a piacimento le regole della natura per piegarle al diritto, sia quando si tratta di stabilire a tavolino nuovi e fantasiosi criteri di morte (la cosiddetta morte cerebrale), sia quando si da via libera a sperimentazioni indiscriminate e senza “statuto” su embrioni vivi, sia quando si tratta di stabilire una nuova categoria di uomini: i “bambini in transito”.

Ad ogni modo per l’importanza del tema ma forse anche per il particolare momento storico/politico, le argomentazioni della sentenza in esame sono destinate a ‘fare storia’.  Qualcuno, in particolare, ritiene che con questa sentenza si metta in discussione la pratica e la legittimità stessa dell’aborto, legittimo nei limiti e nelle forme di cui alla nota legge 22/05/1978, n. 194. Staremo a vedere!

Avv. Antonella Virgilio

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