Il lotto 285 – Capitolo quarantaquattro

Cantico dei Cantici: «Mi alzerò e perlustrerò la città, i vicoli, le piazze, ricercherò colui che amo con tutta l’anima. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi incontrarono i vigili di ronda in città: “Avete visto colui che amo con tutta l’anima?”» (Ct. 3,2)

“In principio, nulla lo attirava di più e lo aveva così profondamente colpito della costatazione che Lucinde era simile anzi una a lui nello spirito e nei sensi ed ora doveva scoprire ogni giorno delle differenze. Esse, è vero, avevano un loro fondamento su di un’identità più profonda e tanto più riccamente si sviluppava in lei il suo essere, tanto più varia e intima era la loro unione.”

Friedrich Schlegel – Lucinda

La donna dai tre nomi

   Non aveva ancora vent’anni quando ci eravamo conosciuti. Ho già raccontato il nostro primo incontro quando eravamo  sulla terrazza del Pincio. Era stato un amore a prima vista. Aveva un corpo florido, un petto generoso, non era molto alta di statura ma aveva gambe robuste. Parlava un italiano chiaro, privo di inflessioni dialettali ma con un accento francese, pur arrotando le erre in modo diverso, più marcato, più vicino al tedesco che conosceva altrettanto bene. Ma era solo un vezzo, perché quando voleva parlava un italiano perfetto, anche se lentamente, come colui che sta imparando una nuova lingua ed ha la necessità di essere compreso. Portava vestiti alla moda, con una gonna svasata appena sopra il ginocchio. Quando avevamo cominciato a frequentarci le avevo rivelato la mia convinzione antifascista e lei mi aveva raccontato che aveva conosciuto l’oppressione nazista, quando i tedeschi avevano occupato l’Alsazia, dove viveva assieme alla sua numerosa famiglia, essendo lei la seconda di nove figli. Lei era nata a Roma. Dopo qualche mese la sua famiglia si era trasferita in Alsazia, dove aveva passato l’infanzia. Tutta la famiglia, composta da cattolici, protestanti, ma anche di ebrei, conduceva una vita tranquilla fino a quando, con l’occupazione nazista, sette persone erano finite nei forni crematori.

  Conosceva bene il francese e parlavo il tedesco, cosa che in seguito avrà  per lei molta importanza. La sua prima concezione del mondo, i suoi primi giudizi su di esso erano stati condizionati dall’ambiente “misto” nel quale viveva ed in cui convivevano pacificamente tre gruppi religiosi, cattolico, protestante ed ebraico. Questo l’aveva preservata dall’intolleranza verso le altre fedi religiose, pur essendo stata una cattolica convinta per tutta la vita.

  Per un periodo aveva frequentato anche una scuola ebraica, dalla quale aveva riportato un piacevole ricordo. Lì si era formata molto presto anche
una coscienza sociale, dato che in quel paese c’erano molti operai sfruttati, minatori polacchi, cecoslovacchi, italiani, i quali il Primo Maggio cantavano l’Internazionale in francese, fino a quando la polizia con, i manganelli, non li disperdeva.

   Poi, poco prima dell’entrata in guerra del fascismo, che era allora al suo apogeo, era ritornata a Roma. Come ho detto era molto religiosa, contrariamente a me, che mi ritenevo un libero pensatore. Aveva un nome derivato da quello della protagonista del romanzo di Schlegel, dal quale ho messo un’epigrafe in testa a questo capitolo, ed avrebbe poi preso come nome di battaglia quello di Maria, ma non in riferimento alla Vergine Madre di Gesù, quanto a Maria di Magdala, che era rimasta fedele al Signore anche quando era già sulla croce, e lo aveva cercato poi fin nel suo sepolcro e lo aveva visto resuscitare. Esempio di abnegazione e di amore muliebre come non ce ne sono stati altri nel corso della storia.

   Ho anche già raccontato quando, dopo i primi contatti con la resistenza, ella mi aveva condotto nella casa in periferia dove viveva assieme ai suoi genitori e i suoi fratelli. Allora avevamo vissuto assieme anche nella mia casa, al centro della città,  avevamo diviso rifugi e percorso centinaia di chilometri a piedi in cerca di armi o di obiettivi da colpire, ci eravamo uniti ad altri compagni in un patto di inestinguibile reciproca difesa. Per mesi avevamo compiuto assieme azioni pericolose ed ora che la città era stata liberata ed avevamo vissuto sulla nostra pelle l’ultimo attacco aereo nemico, le nostre strade si erano divise, io spedito al Nord, dove avrei partecipato a diverse missioni di copertura per i servizi segreti alleati, lei rimasta sulle colline seguendo le azioni dei partigiani per debellare gli ultimi focolai di resistenza delle truppe nemiche.

   Intanto lei aveva assunto un secondo nome di battaglia, quello di Mara, la cui derivazione mi era sconosciuta, ma che, diversi anni dopo, avrei associato a quello di un’altra Mara, anch’essa un’ardita combattente, anch’essa proveniente da una educazione religiosa, anch’essa sposatasi in chiesa con un suo compagno di lotta, che era caduta in uno scontro a fuoco con la polizia in una cascina di una località del Nord. Era il periodo nel quale  nascevano le prime avvisaglie di un forte movimento di contestazione al sistema,  ed alcuni compagni si erano dati alla lotta armata, convinti che con le loro azioni avrebbero rovesciato quello Stato che, dopo il fulgore della lotta partigiana contro il nazismo, aveva tradito quegli ideali di libertà e progresso, sacrificando le loro vite sotto i colpi della polizia e dei nuovi fascisti. In più, devo dire col senno di poi, avevano cercato di eguagliare altri nostri obiettivi che erano stati quelli di colpire, oltre i rappresentanti dell’ordine costituito, i dirigenti di fabbrica, giustificando quegli atti come lotta al Capitalismo, i magistrati ed altre figure del  potere.

   Così la mia compagna di lotta e di vita era diventata “La donna dai tre nomi”, e mi sarebbe stata accanto per tutta la vita. Anche l’altra combattente avrebbe voluto, se non fosse stata uccisa, rimanere accanto al suo sposo ribelle, il quale però, in suo nome, aveva continuato a combattere, fino cadere nelle mani degli oppressori, incarcerato ma non vinto. Prima di morire Mara, il cui vero nome era Margherita Cagol, aveva lasciato questa lettera.

« […] Ora tocca a me e ai tanti compagni che vogliono combattere questo potere borghese ormai marcio continuare la lotta. […] È giusto e sacrosanto quello che sto facendo, la storia mi dà ragione come l’ha data alla Resistenza nel ’45. Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi non ce ne sono altri. Questo stato di polizia si regge sulla forza delle armi e chi lo vuol combattere si deve mettere sullo stesso piano. In questi giorni hanno ucciso con un colpo di pistola un ragazzo, come se niente fosse, aveva il torto di aver voluto una casa dove abitare con la sua famiglia. Questo è successo a Roma, dove i quartieri dei baraccati costruiti coi cartoni e vecchie latte arrugginite stridono in contrasto alle sfarzose residenze dell’EUR. Non parliamo poi della disoccupazione e delle condizioni di vita delle masse operaie nelle grandi fabbriche della città. È questo il risultato della “ricostruzione”, di tanti anni di lavoro dal ’45 ad oggi? Sì è questo: sperpero, parassitismo, lusso sprecato da una parte e incertezze, sfruttamento e miseria dall’altra. […] Oggi, in questa fase di crisi acuta occorre più che mai resistere affinché il fascismo sotto nuove forme “democratiche” non abbia nuovamente il sopravvento. Le mie scelte rivoluzionarie dunque, nonostante l’arresto di Renato, rimangono immutate. […] Margherita, […]».

di Maurizio Chiararia

(continua)