Cine-pillole di Ferragosto

Un po’ più di titoli e anche da leggere del solito. Perché, sebbene siano  molte le sale ancora chiuse in città e provincia, diverse le novità apparse sugli schermi in questa prima metà d’agosto. Alcune anche in rete. A cominciare dall’avvincente film documentario su AOC.

Alla conquista del Congresso. Da non perdere. Titolo originale molto più incisivo: Knock Down The House, buttare, tirare giù, demolire la Casa (ossia il Congresso, la Camera americana). La lotta di un gruppo di donne del per scalzare i boss dell’apparato elettorale del Partito Democratico americano, legati agli interessi e alle lobby affaristiche  delle grandi aziende. La regista Rachel Lears segue quattro di queste candidate, decise a tornare tra i lavoratori delle città e della provincia.  Sono Paula Jean Swearengin, mamma single e figlia di un minatore della Virginia, Cori Bush, un’infermiera afroamericana di St. Louis, Amy Vilela, ex consulente finanziaria di Las Vegas, e Alexandria Ocasio-Cortez, conosciuta ormai come AOC. Soprattutto la campagna intelligente e dal basso di quest’ultima lascia con il fiato sospeso fino all’ultimo, perché deve togliere il posto al Congresso a un inamovibile. La cameriera di un pub che controvoglia accetta la chiamata della sua gente nel Bronx a rappresentarla, sfidando un feudatario a vita del seggio di New York. Su Netflix.

Un lungo viaggio nella notte. Stile ricercato, narrazione labirintica. Il protagonista torna nella sua città natale, causa la morte del padre. Età sui quaranta-cinquanta, dodici anni prima ruba una pistola che gli distorce la vita. Ora cerca la donna e il tempo che ha perduto, la madre che è fuggita, un bandolo all’insensatezza della sua esistenza. Memoria, sogno e immaginazione s’intrecciano in unico viaggio notturno tra ombre e fantasmi riemergenti nella mente e sulla pelle. Più che la trama è la forza delle immagini che il regista cinese Gan Bi stacca nel buio incombente della coscienza. In sala.

Gamberetti per tutti. Commedia gay fino a un certo punto. Anche se la squadra di pallanuoto esiste veramente (Crevettes Pailettées, Gamberetti Paillettati), il meccanismo narrativo adottato è già stato sperimentato con successo in altri film, tipo lo spagnolo Campeones. Uno sportivo di valore nazionale commette una grande minchiata, e per riparare deve allenare una equipe particolare. Nello spagnolo era una squadra di basket di picchiatelli, in questo francese una squatra di gay. Il film è anche un esilarante road movie a bordo di un bus panoramico a due piani che da Parigi deve raggiungere la Croazia, dove si svolgono i campionati LGBT. Pur nell’atmosfera frizzante e scintillante i due registi mettono in guardia che su gay e trans incombe sempre l’ombra del dramma e della violenza. In sala.

Lady J. Serrato, elegante, perfidamente giusto. Tratto da un racconto di Denis Diderot, inserito nel suo romanzo Jacques Le Fataliste (1784). Madame de La Pommeraye, vedova e decisa a non riaccoppiarsi in alcun modo, cede al lunghissimo corteggiamento del Marchese de Arcis, impenitente tombeur des femmes, ritenendolo convertito ai sentimenti sinceri del vero amore. Presto deve arrendersi invece all’evidenza: sbagliava. Alle soglie del secolo dei lumi, immedesimandosi nell’oltraggio continuo che riceve dai maschi tutto il genere femminile, concepisce e attua un raffinatissimo intrigo vendicativo, giocando con l’intelligenza del più abile maestro di scacchi e la più consumata d’attrice del gran teatro di Francia. Continua è l’opposizione in immagini tra natura e costume. Tutto lo spirito del ‘700 in un racconto avvincente, ben recitato e con finale a sorpresa. Su Netflix.

Un’intima convinzione. Un legal incalzante senza facili verità. Da un caso giudiziario vero. Il regista immagina che Nora, una normale casalinga francese con prole, sia tra la giuria popolare nel primo processo contro Jacques Viguier, accusato dell’omicidio di sua moglie. Assolto, viene richiamato alla sbarra dieci anni dopo, nel giudizio d’appello. Per i media, l’opinione pubblica e lo stesso ambiente giudiziario Viguier è la figura perfetta dell’abile manipolatore di prove e verità contro di lui. Il verdetto sembra già scritto. Nora, intimamente convinta invece della sua innocenza,  riesce a convincere l’avvocato Dupont-Moretti, uno dei massimi principi del Foro a rappresentarlo. Collaborerà direttamente con lui nello sbobinamento di centinaia di ore con intercettazioni telefoniche da incrociare con una selva di altri dati. La verità, però, invece di dipanarsi si aggroviglia, anche perché il vero avversario dell’imputato è l’amante della moglie, diabolicamente  abile a far convergere le prove contro l’imputato. La vicenda cresce, raggiungendo un vertice critico massimo. Nell’era dei media, dei social tutto è ormai disorientante, e anche la Nora che è in noi spettatori vede disperatamente sgretolare le proprie più salde convinzioni. Grande interpretazione di Marina Foïs e Olivier Gourmet. In sala.

High Life. Claustrofobico aereospaziale. O Sci-Fi Prison  (Scienza-finzione in ambiente ristretto) Un gruppo di uomini e donne, con condanne a morte o all’ergastolo, baratta la scarcerazione, imbarcandosi su un mezzo spaziale diretto verso un buco nero della nostra galassia, al fine di catturarne l’immane energia. Tra essi anche una dottoressa che sperimenta la possibilità di una procreazione geneticamente pura tra quell’equipaggio di sporchi assassini. L’astronave viaggia a una velocità prossima a quella della luce, così che per loro il tempo passa meno lentamente, mentre quelli che hanno lasciato sulla Terra saranno già vecchi decrepiti o del tutto crepati. Dentro l’astronave c’è anche un apposito ambiente con terra e vegetazione da coltivare. E immagini di scenari naturali continuano ad arrivare dal nostro pianeta sugli schermi di bordo. La reclusione e il vagare dentro lo spazio senza dimensione, direzione e luce solare si dimostrano ben peggiore di qualsiasi penitenziario terrestre. Anche il film è interamente girato nella penombra asfissiante dei vari ambienti di un vascello ormai vecchio e anche un po’ scassato. Più che altro gli umani sembrano portare nell’Infinito la loro morte, il loro nulla. Anche se la scena finale ci lascia un alone di speranza, proprio grazie a quella vita che la perfida dottoressa era riuscita estorcere a uno di quei disperati ergastolani. In sala.

The Hater. Micidiale smascheramento di persone e oscure disinformazioni che pervertono i social-media. Tomek, uno studente polacco al primo anno si fa espellere dalla Facoltà di Legge per plagio. Lo assume un’agenzia di pubbliche relazioni che attua le sue campagne prevalentemente attraverso i social. Campagne soprattutto contro. Clienti perlopiù anonimi pagano profumatamente per danneggiare concorrenti commerciali e politici. A Tomek è affidato il compito di rovinare l’immagine di un candidato progressista a sindaco di Varsavia, esaltando sui social il clima d’odio sovranista e razziale in atto in tutta la Polonia. Questo film di fiction viene dopo il cruciale documentario The Great Hack, Privacy Violata, del 2019, che svela come grandi operazioni politiche internazionali quali Brexit, le elezioni americane e in altri Paesi, siano state condotte attraverso il bombardamento di disinformazione e manipolazione social. A deporre al Congresso americano su di esse fu chiamato lo stesso patron di Facebook, Marc Zuckeberg. Lo stesso attore protagonista ha tratti di tipologia somatica Zuck da giovane. La cosa più allarmante che regista di The Hater, Jan Komas, mette giustamente in risalto è che queste persone e sistemi hanno una doppia faccia, fanno uno sporco doppio gioco. Ossia un lato della loro attività è dedicato con pieno successo a conquistare la nostra fiducia. Odiatori e deformatori sono dentro, fin nel profondo, anche il più smaliziato utente social, perché essi ne sanno molto più di lui/lei di algoritmi di controllo e manipolazione. Su Netflix.

Galveston. On the road movie tra disperazione e riscatto. Tratto dall’omonimo romanzo di Nic Pizzolato. Roy recupera crediti per il suo boss Stan, ma non lo fa certo garbatamente, anzi. Anche lui fin da ragazzo è un bel delinquente patentato. Scopre di avere un tumore e per dipiù che Stan gli affida un recupero-trappola per ammazzarlo. Fugge portandosi dietro un po’ di compromettenti pezzi di carta del capo. Si imbatte in Rocky, una biondina diciannovenne ridotta a prostituirsi. Per aiutarla, Roy si ficca in un guaio ancora più grosso di quello con Stan. Galveston è la cittadina texana dove finiscono per infognarsi. Si dice che l’autore del romanzo, in piena fase di scrittura del copione abbia mollato, sbattendo forte la porta per dissensi con la regista Mélanie Laurent. Certo, non è genere ritenuto per femmine quello della gangster story on the road. Domandiamoci, però, se il racconto di partenza non contenga molti elementi già narrati e filmati dalla letteratura e dal cinema statunitense. È evidente che sì. Forse proprio per questo l’autrice ha voluto, pur nella classicità del genere, imprimere una sensibilità emotiva diversa a inquadrature, movimenti macchina, fotografia, recitazione, montaggio. In sala. Che poi ci sia riuscita del tutto è un altro discorso.

Nour. Meritevole con limiti. Tratto dal libro Lacrime di sale, di Lidia Tilotta e Pietro Bartolo, il medico lampedusano dei migranti, oggi eurodeputato. Lui stesso partecipa a scrivere il copione del film. Nour è una bambina siriana sbarcata a Lampedusa senza padre, né madre. Fugge continuamente dalla struttura sanitaria e dal centro d’accoglienza. Bartolo finisci per prenderla con sé nella casa in cui vive con la moglie. Poi si mette alla ricerca della madre. Il regista Maurizio Zaccaro dedica l’opera a Ermanno Olmi, il suo maestro. Ipotesi Cinema, la scuola fondata da Olmi, Elisabetta Olmi, come produttrice, insieme a Donatella Palermo, e Fabio Olmi, quale direttore della fotografica, accompagnano l’allievo nella non facile impresa. Non facile proprio perché è invece facile scivolare nella retorica o nel già visto televisivo. Le capacità cinematografiche di Zaccaro evitano entrambi i pericoli, e mettono bene a frutto la lezione del maestro di raccontare attraverso una piccola vicenda personale il senso di un dramma più grande. Un vero e proprio sistema d’immagine, diffuso nell’isola e nelle riprese, è l’incombere di sbarre e inferriate, a renderne palpabile l’atmosfera di prigionia. Gli evidenti limiti di budget condizionano, però, alcuni esiti, inferiori agli intenti. Inoltre nei film autobiografici ci si trova sempre di fronte al dilemma se privilegiare la verità storica o quella dell’arte. Se una singola persona ha male a un ginocchio, a una spalla o altra parte soffre per intero. Così se c’è una parte d’umanità che soffre, non può che soffrire l’intera l’umanità. Questa la filosofia di Pietro Bartolo. Sergio Castellitto riesce a rendere con pienezza e autenticità la stoffa esistenziale di questo medico dell’umanità imprigionata. In sala.

di Riccardo Tavani

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