I giorni della merla e della chiama
Ci risvegliamo all’alba del giorno dopo la rielezione del Presidente della Repubblica uscente Sergio Mattarella a nuovo Presidente della Repubblica entrante avvenuta il 29 gennaio scorso. Già alle sette di mattina ci ritroviamo sullo smartphone la segnalazione di un nostro dimenticato post di esattamente sette anni fa: “La classe politica sa cercare solo nella propria massa tumorale il rimedio alle metastasi che ha diffuso in sé e nelle istituzioni”. Se questo ricordo ci fosse giunto durante i giorni della merla e delle chiame, il nostro responso relativo al rebus sul nome del Presidente sarebbe stato univoco: Mattarella. I giorni della merla, infatti, si riferiscono al 29, 30 e 31 gennaio: i più rigidi dell’anno si riteneva tradizionalmente. E a farne le spese era una povera merla intirizzita. Si dice, però, che più duri sarebbero stati quei tre giorni, maggiormente la primavera si sarebbe aperta e offerta a noi nella maniera più dolce. Metaforicamente, potremmo dire, che molti di noi hanno patito la gelata non atmosferica, ma di follia politica, consumatasi dal 24 gennaio – giorno della prima chiama al voto dei grandi elettori – all’ultima del 29 scorso. Senza, però, che quel folle gelo sia propizio di una stagione migliore. Anzi.
È la seconda volta consecutiva, infatti, che il nostro Parlamento vota per la rielezione di un Presidente della Repubblica. Era successo con Giorgio Napolitano il 20 aprile del 2013. Questi fu allora chiamato Re Giorgio, anche per la sua leggendesca, illegittima discendenza da Umberto II di Savoia (d’altronde aveva studiato al Liceo Classico Umberto I di Napoli). Alte si sono levate le strida contro la rielezione di super Mario Draghi, la quale avrebbe di per sé apparecchiato, imbandito di fatto un repubblica semipresidenziale. Come se quando Napolitano, dopo averlo designato senatore a vita, non avesse incaricato Mario Monti all’incarico di Presidente del Consiglio, in modalità squisitamente semipresidenziale. E identica cosa non avesse fatto lo stesso Mattarella – proprio con Mario Draghi. Ma no, certo! Meglio la Repubblica semi-monarchica. Secondo molti studiosi e costituzionalisti il ruolo del nostro Presidente della Repubblica già di per sé eredita i tratti peculiari della precedente figura storica del Re. Da Sandro Pertini in poi questo ruolo si è andato sempre più accentuando. Ciò – in modo consustanziale – con la progressiva crisi dei tradizionali partiti, spazzati poi via dal Crollo del Muro di Berlino, dai nuovi equilibri mondiali e dalla conseguente stagione giudiziaria chiamata Mani Pulite.
Potremmo direttamente affermare: crollo del muro della politica. A seguito di continuo, prolungato, inarrestabile smottamento. Politika, ormai, con la k di un suo auto sentenziato Kaputt! Draghi aspirava al Quirinale proprio in ragione di tale irreversibile fattore neo K, che rende ingovernabile qualsiasi pur pattuito programma politico-economico di una qualsivoglia maggioranza. Al soglio quirinalizio, con un governo che – in un quadro pur sempre parlamentare, sulla scia di Napolitano e Mattarella – rispondesse ai termini istituzionali di un suo incarico-quadro.
Come sarà possibile che l’impazzimento di questa maggioranza non continui se non è stata capace di trovare l’accordo su una figura, non si pretende innovativa e con lo sguardo, il passo piantati già nel futuro, ma neanche della vecchia inadeguata guardia? Una maggioranza che è dovuta di nuovo ricorrere al sacrificio cristologico, ossia alla messa in croce del santo nuovo di zecca San Sergio.
Anche quest’ultimo, però, era già prima e lo è ancora di più oggi figura di un’altra epoca, non solo politica, già tramontata da tempo. Poco può fare, se non tentare di limitare il disastro agli occhi del mondo, insieme al Presidente del Consiglio, Mario Draghi, da lui nominato, quale garante economico. Di più potrebbe forse questo: avviare una grande consultazione, una sorta di costituente culturale sulla configurazione di un nuovo quadro di giustizia sociale e ambientale per i giorni prossimi venturi della merla e della chiama.
di Riccardo Tavani