Donne costrette all’isterectomia per lavorare lo zucchero di canna in India

Giovanissime donne sottratte alle famiglie quando sono ancora ragazzine, costrette a turni massacranti sotto il sole cocente, private del loro diritto di essere mamme attraverso l’asportazione dell’utero in età adolescenziale. Un intervento che le segnerà a vita per liberarsi dei crampi mestruali ed essere più produttive, intervento che le rende anziane più presto e che le espone al rischio di malattie e infezioni. Questo il dramma nascosto delle donne sfruttate nella filiera della canna da zucchero.

I costi dell’intervento di isterectomia totale con rimozione delle ovaie, effettuato in cliniche colluse con i caporali, sono a completo carico delle lavoratrici che, durante la convalescenza, non percepiscono stipendio.

Sono spesso ragazzine quelle che si sottopongono all’intervento, costrette ad una scelta tanto drastica che cambierà per sempre il corso delle loro esistenze, privandole della possibilità di avere figli e rendendole prematuramente vecchie a causa di una menopausa innaturale, precocemente indotta.

Eccole le donne coinvolte nella raccolta delle canne da zucchero nello Stato di Maharashtra, nell’India centro-occidentale. Una storia che nessuno conosce ma ci coinvolge da vicino considerando il fatto che siamo noi occidentali ad importare la maggior parte dello zucchero proveniente dall’India.

Una storia fatta di caporali senza scrupoli, donne disperate e disposte a tutto pur di tenersi il lavoro e poi giri di affari enormi a vantaggio di pochi.

La stagione della raccolta delle canne da zucchero inizia ad ottobre nel sud del Paese, dura sei mesi circa e coinvolge manovalanza reclutata in tutta l’India, anche in regioni lontane dai campi – come il Maharashtra, che si trova a circa 500 chilometri di distanza.

Gli “agenti di reclutamento” sono detti mukadam: sono loro che vanno di villaggio in villaggio per portare intere famiglie nella regione dove la canna da zucchero viene coltivata. Nessuno sfugge al loro volere: uomini, donne, ragazzini anche giovanissimi. La metà dei lavoratori coinvolti nella “catena dello zucchero” sono donne, molte delle quali iniziano a lavorare nei campi a partire dai dieci anni di età.

Condizioni di lavoro disumane: sveglia alle tre del mattino, turni di lavoro da dieci ore sotto il cocente sole indiano, un unico giorno libero al mese.

Come sostenuto dai curatori del reportage, delle donne che lavorano nelle piantagioni una su tre non ha più l’utero. Un intervento rischioso e dannoso per la salute delle lavoratrici, ma mostrato come necessario dai loro aguzzini: in questo modo non subiranno i dolori delle mestruazioni o l’eventualità di una gravidanza, si lamenteranno meno e saranno più produttive sul lavoro.

Se poi si ammalano di cancro, non servono più a nulla.

Verità nascoste che però, quando si apprendono fanno male, troppo male.

Un sacrificio immenso che viene proposto con l’inganno spiegando che è un’operazione da nulla, quasi di routine, e che può fungere da prevenzione contro l’insorgenza di tumori.

Donne invisibili, sfruttate, a cui viene negato il diritto di essere donne e madri.

Una realtà atroce solo a pensarci, un costo che molte donne pagano al posto dei consumatori occidentali che con leggerezza acquistano prodotti senza porsi troppe domande su chi ci sia dietro, per esempio, ad un pacchetto di zucchero.

In questo caso ci sono ragazzine mutilate che mai saranno donne e a cui per sempre viene negato il diritto di avere dei figli.

di Stefania Lastoria

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