Quando lo schermo spacca, succhia le ossa

Consideriamo due film che hanno le ossa nel titolo. Uno è Spaccaossa, l’altro Bones and all. Entrambi di registi italiani: Vincenzo Pirrotta e Luca Guadagnino. Nel primo film c’è una corrispondenza diretta tra il titolo e l’azione drammatica di persone che letteralmente spaccano le ossa ad altre persone. È tratto da una vicenda svoltasi realmente nella periferia di Palermo. Non interpretato, ma prodotto dal duo comico Salvo Ficcarra e Valentino Picone, è scritto anche da loro insieme al regista, che – al pari di Selene Caramazza – ne è protagonista principale. Vincenzo Pirrotta, infatti, è attore e regista teatrale, oltre che cuntista, cantastorie girovago, allievo di Mimmo Cuticchio, il grande maestro puparo e di lu cuntu, ossia di quel tradizionale canto e racconto che in Sicilia si fa delle vicende sia epiche antiche, sia drammaticamente attuali.

Il titolo del secondo film, Bones and all, è un’espressione che sta per le ossa e tutto il resto. È tratto dal best-seller della scrittrice americana Camille DeAngelis, uscito in Italia nel 2015 con il titolo di Fino all’osso. Qui non si spaccano le ossa, ma si mangiano le carni umane, fino a succhiarne le ossa. È il primo film tutto Usa di Luca Guadagnino, prodotto dagli americani e ambientato tra diversi Stati, come un diario on the road, tra le due coste di quel vasto Paese.

In Spaccaossa, Vincenzo opera nell’ombra illegale di un’agenzia assicurativa che simula incidenti stradali, riscuotendo elevati rimborsi. Il protagonista deve procurare persone disposte – dietro compenso economico – a farsi spaccare le ossa di gambe e braccia ma molto seriamente, perché più grave è il trauma diagnosticato, più alto il premio incassato. Il protagonista è spietato, si nutre, campa delle ossa gravemente fratturate di gente in disgrazia, in miseria profonda, disposta a tutto pur di mettersi qualcosa in tasca per far marciare e non solo marcire la propria vita. Vincenzo, però, si sente solo, e lo è davvero: il lauto salario del dolore che riceve spacca pure a lui qualcosa dentro. Per questo intuisce la stessa disperata solitudine in Luisa, una giovane sbandata sempre in cerca di una dose da iniettarsi. Con lei non è spietato, anzi, l’aiuta, la protegge. Il suo fisico massiccio contrasta con quello esile di lei. Vede in quell’esistenza appesa a un tenue filo la possibilità di riscatto alla propria spietatezza e solitudine. Così è anche per lei. In loro la speranza, o l’illusione si nutre, si divora l’uno dell’altra. L’amore, infatti, che possibilità ha dentro un tale implacabile meccanismo che stritola le ossa?

In Bones and all,  la giovane Maren ha soltanto il padre, ma questi l’abbandona fin dalle prime scene. Così si ritrova sola, senza una casa, un affetto, una conoscenza, in giro per la spietata vastità americana. Tanto più che pure lei è costretta ad agire un’orrenda forma di spietatezza. Pur non volendolo e anzi cercando di evitarlo in tutti i modi, un che di geneticamente ereditario, infatti, la obbliga, la spinge cecamente a nutrirsi, a cibarsi letteralmente di altri esseri umani. È un’antropofaga, una cannibale. Ne incontra altre di persone come lei nella sua disperata e solitaria fuga-ricerca. Esseri che tra loro si riconoscono a distanza dall’odore. E ognuno cerca nell’altro: affetto, amore, una casa, una normalità nella propria mostruosa ab-normalità. E Maren, nel suo rabdomantico on the road, finisce per incontrare Lee, un ragazzo antropofago come lei. Anche se lui ha una sorella, una casa cui sempre poter tornare, questo non scalfisce di un ette la sua ineliminabile condizione di solitudine esistenziale. Così che pure Lee non può fare a meno di vedere in Maren la speranza di un tetto d’amore seppur cannibalescamente inteso. Ecco, dunque, che la speranza o l’illusione d’amore si nutre, si ciba l’uno dell’altro sia per spaccaossa, sia per spolpa-ossa.

E come Luisa, nel film di Pirrotta, offre materialmente le fragili ossa del suo corpo all’amore per Vincenzo, così – nel film di Guadagnino – fa Lee, porgendo il cuore nel suo petto squarciato alla fame d’amore di Maren. Una differenza, però, c’è tra i due film. Il primo è innanzitutto una storia vera di orrore sociale, cui è stata lateralmente aggiunta un’immaginaria sottotrama d’amore. Il secondo – inequivocabilmente – è soltanto un’immaginaria trama d’amore. Spinta sì in un’antropofagia horror puramente cinematografica, ma pur sempre una mera storia d’amore, e soltanto per presentarcela come unica

Di tutte le tradizionali,  abusate, ormai demodées storie melodrammatiche, però, il film di Guadagnino mantiene la basilare sequenza narrativa. Sequenza scandita in sei principali step: incontro, innamoramento, incomprensione, separazione, riconciliazione, trionfale fusione finale. Nel cinema sentimentale tradizionale, l’obiettivo di ognuno di questi sei passi è quello della variazione per tenere lo sguardo dello spettatore sempre incollato allo schermo. L’inserimento della ripugnanza antropofaga, invece, persegue qui esattamente il contrario: quello di distogliere violentemente la vista da scene impossibili da guardare. L’orrore, infatti, non si può visivamente sopportare. Non solo istintivamente si abbassano o ci si coprono gli occhi, ma diverse persone escono letteralmente dalla sala e non rientrano più. Questo, però, appare solo come un espediente meramente artificiale, perché l’allontanamento dello sguardo dallo schermo non è mai compensato da un’attrazione estetica uguale e contraria, fondata cioè su immagini, inquadrature, sequenze, movimenti di macchina intrinsecamente significativi, narrativi e dotati di senso in sé.  Per cui rimane alla fine solo una storia d’amore, caricata di disgusto orrifico, ma unicamente come estrema variazione sul tema. Ciò che non appare è un autentico passo stilistico e narrativo in avanti nel cinema d’arte.

Anche Spaccaossa, a tratti, si sporge sulla soglia del non guardabile, ma vi si trattiene, senza comunque mai ostentare l’orrore del dolore. La storia in sé è già uno spaccato, una voragine della sofferenza cui costringe e cui si riduce l’umano: senza neanche la facile consolazione di un qualche riscatto, redenzione. Purtuttavia il film non riesce a sprigionare un più alto valore estetico ed esistenziale, prevalendo alla fine più la cronaca dei fatti che il senso che determina quell’abisso di miseria. All’autore, però, non mancano le qualità per riuscirci in una prossima prova.    

Riccardo Tavani