Zar e Anti Zar di un impero senza orizzonte
Putin o un altro figlio di puttana cambierebbe poco. L’impero ne ha sempre un intero girone a disposizione di simili genie. L’ancestrale pulsione russo-zarista ne ha bisogno in continuazione. La dimensione imperiale , infatti, non può che tendere allo sgretolamento dei vasti confini, alla sedizione, al collasso dentro e fuori di essi. L’Unione Sovietica di Stalin è stata una forma di zarismo molto più potente e allargata di quella decadente precedente. Forma, però, che diventa poi essa stessa un ostacolo a un ulteriore sviluppo. Il cosiddetto socialismo reale, quello che dominerà poi in tutta la sfera d’influenza sovietica, non sarà più in grado di reggere il confronto scientifico e tecnologico – dunque anche militare – con l’altro polo imperiale mondiale, gli Usa. Similmente quando appare chiaro che Gorbaciov – invece di trovare una nuova via all’impero in crisi – sta smontando a pezzi le sue rimanenti strutture e arsenali atomici, è fatto fuori senza tanti complimenti, con un sostegno indiretto dell’intero Occidente che potremmo definire ciecamente oculato.
Non si marcia su Mosca se non si ha chiaro che in Russia in ballo c’è questo, sempre. Chi meglio di Yevgeny Prigozhin può saperlo d’altronde? È la guida suprema di quella vera e propria multinazionale militare mercenaria, detta Wagner, così chiamata per le passioni nazi-estetiche del suo primo leader Dmitri Utkin. Essa agisce non solo in Russia e in Ucraina, ma anche in Libia e molti altri paesi africani, allo spietato servizio delle dorate cupole imperiali di Mosca. L’impero ce l’ha nel sangue: quello che scorre nelle proprie vene e – soprattutto – quello che fa versare ad altri dove mette scarpone. Putin vuole sciogliere la Wagner, inquadrare e riunificare i suoi combattenti e ufficiali sotto l’alto comando dell’esercito regolare russo, per una maggiore efficienza militare. È come, però, estirpare un’alternativa che l’impero non può fare a meno di coltivare e tenera attiva, pronta a scattare nel suo seno. L’alternativa al fallimento politico-militare putiniano, ma prima che sia troppo tardi, ossia prima che questo si avvii a irreversibile compimento.
Già nel Ramo d’oro, il celebre trattato del 1890, l’antropologo James Frazer descrive l’usanza arcaica di saggiare costantemente la salute, la forza del sovrano, anche sfidandolo apertamente, fisicamente, per spodestarlo e prenderne il posto ai primi cenni di debolezza, cedimento. Non è possibile al momento sapere su quale cruciale filo di equilibrio sia ora sospeso o definitivamente risolto lo scontro tra lo Zar Putin e l’Anti Zar Prigozhin. Il vero nodo travalica le loro persone, intrighi e vicende individuali. Queste ultime sono soltanto materializzazioni in superficie di una contraddizione irrisolta che giace nel sottosuolo come un immenso giacimento lavico pronto a emergere ed esplodere all’esterno. Perché è davvero come un sotterraneo impero geologico, il quale non riesce a trovare un suo nuovo assetto stabile. Un assetto inteso, infatti, anche quale carattere che potremmo definire ideologico. Il vetero zarismo si fondava su una secolare tradizione aristocratico-religiosa, e poi il regime sovietico sul socialismo marxista leninista; l’impero americano ha il simulacro della democrazia, e il dragone cinese conserva ancora quello del comunismo, sebbene pratichi il turbo capitalismo. Quale grande credo d’orizzonte, in funzione di comune collante sovrastrutturale di destino e di popolo, delinea invece il putinismo? Niente, al di là di un magmatico nazionalismo dittatoriale e burocratico. E nessun impero può definirsi o ridefinirsi senza tale confine interiore. Una marcia su Mosca, o da Mosca dentro sé stessa, dunque, è sempre pronta a rimettersi sui cingoli.
Riccardo Tavani