Tutti giù in fondo al mare
La vicenda del sommergibile Titan, imploso a circa quattro chilometri sotto l’Oceano, a largo dell’Isola canadese di Terranova, ha tenuto col fiato sospeso tutto il mondo. Sospeso come il respiro di quei cinque passeggeri, poi mozzato dall’implosione del batiscafo accanto al relitto del Titanic. La quantità dei mezzi altamente tecnologici impiegati, delle ore, della capillarità delle ricerche non ha potuto niente contro l’immane forza del pianeta liquido Mare.
Il paragone polemico è scattato nei confronti delle migliaia di migranti che sono affogati e continuano ad affogare, anche a centinaia tutt’insieme, a bordo di uno stesso scassatissimo scafo, senza che alcun governo metta in acqua mezzi simili in qualità e quantità a quelli adoperati per la salvezza di cinque facoltosissime persone. Talmente ricche sfondate da non potersi accontentare di pagare la misera manciata di dollari che costa il biglietto del film Titanic, di James Cameron, con Kate Winslet e Leonardo Di Caprio. No, il film volevano, dovevano essere loro direttamente, tanto da pagare 250 mila dollari a testa per produrlo con la loro stessa presenza.
Ci sono riusciti, purtroppo, con un finale altrettanto tragico, e di quei traboccanti conti in banca inesorabilmente non se ne possono ora fare più niente. E anche se l’implosione – similmente alla gravitazione di vero e proprio buco nero – non ha permesso di fare uscire alcuna video immagine della loro discesa fino a là sotto, ossia agli inferi, certamente Hollywood non mancherà di girarle le drammatiche sequenze di quest’altro capitolo della storia americana. Anche per gli immancabili e intricati strascichi legali che già si stanno determinando.
Per quanto inevitabile il paragone con gli annegamenti migratori, esso, però, non coglie un aspetto simbolico e inconscio nello stesso tempo. È noto quel fenomeno umano per cui si rimane meno impressionati per le migliaia di morti in guerra, in incidenti stradali, ferroviari, aerei, navali, infortuni sul lavoro, ecc., che per la morte di una sola o poche persone in certe particolari circostanze. Appena qualche anno fa, nel luglio del 2018, scrivevamo su questa rubrica della caverna Tham Luang in Thailandia, in cui rimasero intrappolati dodici giovanissimi giocatori di calcio e il loro allenatore. Tutto il mondo si identificò con il loro fiato sospeso, fino a che non si riuscì arduamente a liberarli.
In quell’articolo ricordavamo anche la morte nel 1981 del bambino Alfredino Rampi, soffocato in fondo a un pozzo nell’Agro Romano. Scrivevamo: “Il rimanere intrappolati, lo sprofondare sottoterra ci appare oggi come una rappresentazione simbolica tremenda. Ci appare come la scena, anzi la mise en abyme, la messa in abisso inconscia della nostra inesorabile inumazione, del nostro inabissarci nella morte a ogni nuovo passo della vita. Per questo scatta un meccanismo empatico di universale identificazione. Dentro una grotta o la morsa claustrofobica di cunicolo – ci fosse anche una sola persona – vediamo l’intera umanità”.
È il panico che può prenderci dentro la cabina di un ascensore bloccato tra i piani, o in un vagone stracarico della metropolitana, quando noi siamo schiacciati nel mezzo. Il respiro, infatti, è il simbolo stesso dell’esistenza, intesa proprio nel senso filosofico più profondo del cartesiano Cogito, ergo sum. Non solo penso, dunque sono, esisto, ma ci sono e sono cosciente di esserlo, perché il respiro scandisce il battito, l’algebra ritmica del mio pensiero. E il pensiero si fa fisicamente fiato, respiro nel suo aspetto di parola, di alternanza tra silenzio e suono, sistole e diastole, senza la quale non si darebbe alcun linguaggio. In questo il pensiero-respiro, proprio come il linguaggio, non può essere confinabile dentro una singola persona, ma è patrimonio comune universale.
Nel presente, però, si manifesta una relazione ancora più vasta tra esistenza e respirazione. Il vertiginoso aumento di fenomeni d’inquinamento dell’aria, delle acque, del sottosuolo pongono l’intero nostro pianeta a rischio di sopravvivenza della propria respirazione, parola, pensiero e ogni altra espressione del linguaggio insieme matematico e poetico della natura. È come finissimo tutti, tutta la Terra giù in fondo all’Oceano Mare. Magari, proprio come quei cinque passeggeri del batiscafo Titan, con le finanze planetarie traboccanti di profitti, ma senza che nessuno se ne possa fare proprio più – nulla.
Riccardo Tavani