GUNS N’ ROSES AL CIRCO MASSIMO

di Giacomo Fagiolini

I Guns N’ Roses non sono mai stati la solita band. 

Nacquero a Los Angeles, alla fine degli anni 80, e spazzarono via in pochi folgoranti dischi tutto lo smielato marciume delle band hair metal perché tuonavano qualcosa di reale. 

Nietzsche ci ha aiutato a vedere che Dio è morto. 

Questa non è un’idea filosofica astratta. 

Qualcosa è morto dentro di noi, dentro ognuno di noi. 

Nietzsche, alla fine della sua vita, progettava di scrivere un’opera capitale, che si sarebbe dovuta intitolare La Volontà di Potenza, e avrebbe dovuto essere la summa del suo pensiero. 

In essa, lo sappiamo dai frammenti postumi, 

Nietzsche sarebbe tornato nel luogo originario del suo pensiero, sarebbe ritornato all’Arte, come nel suo primo scritto, la Nascita della Tragedia dallo spirito della musica. 

Nietzsche scrive: la religione, la filosofia, la morale, sono la decadenza dell’umano. 

Il contromovimento? L’Arte. 

Nietzsche intuiva, intravedeva, una tipologia di artisti capaci di plasmare sé stessi e anche gli altri, capaci di lasciar scaturire, dalle fonti sorgive dell’esistenza, contenuti tanto profondi da riorientare l’intera storia del mondo. 

Non esageriamo. Non dico che i Guns siano stati questo. 

Dico, però, che nella loro parabola, nella voce di Axl, nella chitarra di Slash, qualche primo bagliore di un’arte siffatta si lascia intuire. 

Persino al Circo Massimo, nel recente concerto celebrativo di quel che rimane dei Guns, qualche scintilla di irriducibile talento è arrivata forte. 

Qualche scintilla irriducibile al carrozzone patetico cui lo show business ha ridotto tutto. 

Qualche scintilla di una forma d’arte irriducibile al buco nero mefitico del consumismo trito e ritrito. 

 

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