Un progetto incomprensibile, una riforma pericolosa

C’era una volta un Re: questo non è soltanto l’incipit di tante favole, ma anche l’inizio della storia di quasi tutti i moderni Stati europei. Ma in passato il Re era tale per volere di Dio, ed accentrava in sé il potere di fare le leggi, di governare e di amministrare la giustizia. Si chiamava assolutismo, oggi si direbbe totalitarismo. Contro questo stato di cose, attraverso molte lotte e molto sangue, si è infine giunti a dividere quei tre poteri tra entità diverse. Se oggi possiamo godere delle libertà democratiche in quasi tutta Europa, è perché chi fa le leggi è il parlamento, che non governa, chi le applica è il governo, controllato dal parlamento, e chi amministra la giustizia è indipendente da entrambi gli altri poteri. Questo avviene sia dove c’è ancora un re, sia dove c’è un presidente, chiunque l’abbia eletto. Ma ogni qual volta si faccia confusione tra quei tre poteri, si rischia di perdere la democrazia. Ed è ciò che l’attuale maggioranza di governo sta cercando di fare in Italia.

Nei manifesti e nei discorsi elettorali dell’anno scorso – si trovano facilmente in rete e su YouTube – FDI e in particolare la sua leader promettevano una precisa riforma istituzionale: il presidenzialismo.

Non era una proposta assurda. La nostra è una repubblica parlamentare: non poteva non essere così, dal momento che quando è nata eravamo appena usciti dal tragico fallimento del regime fascista. L’idea di affidarsi ad una carica politica più personale e autonoma come un capo dello Stato eletto dal popolo non veniva, molto saggiamente, vista di buon occhio. Ma oggi, a settantotto anni di distanza dalla fine del fascismo (almeno di quello storico), si può anche mettere in discussione quella scelta: d’altronde gli USA, una delle democrazie più antiche del mondo moderno, e i nostri vicini d’oltralpe hanno un presidente eletto dal popolo. Anzi, le repubbliche presidenziali o semipresidenziali nel mondo sono più di cinquanta. Dunque ripensare se si debba continuare col parlamentarismo o virare sul presidenzialismo non è più un tabù e rientra in un gioco politico accettabile anche per chi non desidera un tale cambiamento. E probabilmente gli elettori dell’attuale maggioranza di governo sarebbero favorevoli, almeno in buona parte, al presidenzialismo, visto che di questo si parlava nel programma elettorale.

Ora la riforma presidenzialista è stata abbandonata – senza una parola di spiegazione – e sostituita da un’inedita proposta di premierato, mai presentata in alcun programma elettorale. Il voltafaccia politico del governo non è stato in alcun modo motivato ma, paradossalmente, si continua a pretendere che la riforma sia coerente all’impegno preso con gli elettori. Forse nella convinzione che, una volta ottenuti i voti necessari a governare, si possa fare quel che si vuole: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. O forse nella convinzione che, tanto, gli elettori non capirebbero la differenza. O forse perché, come dicono i bene informati, qualcuno lo ha suggerito in cambio del suo appoggio.

Comunque sia, ci troviamo di fronte alla solita capriola politica, sconcertante sia per il modo, sia per il contenuto del tutto peregrino e insensato.

E qui è opportuno comprendere bene di che cosa si tratta, cominciando dal modo.

È bene ricordare che la nostra attuale Costituzione è stata elaborata da un’Assemblea Costituente eletta a suffragio universale, attraverso un complesso lavoro di preparazione e confronto. Ogni suo articolo è stato discusso in un contesto irripetibile e in un momento storico di particolare intensità. I padri costituenti non avevano obiettivi elettorali, nessuna paura di perdere voti, nessun’ansia di guadagnarne, nessuna smania di governare: pensavano soprattutto a costruire una nuova Italia. Perciò ogni tentativo di modificarla dovrebbe prevedere un atteggiamento meno velleitario e improvvisato, ma più disinteressato, ponderato e possibilmente collegiale, come fu allora. Invece, ciò che ieri fu fatto dall’Assemblea Costituente è oggi disfatto in un disegno di riforma elaborato dalla senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati, ministra per le riforme istituzionali, senza un confronto, senza un dibattito pubblico, senza un percorso istituzionale, senza alcuna visibilità o trasparenza. Con il dovuto rispetto, il dislivello tra un’Assemblea Costituente e un’avvocatessa specializzata in diritto canonico (tale è la senatrice Casellati) mi sembra abissale “a prescindere”. E comunque un ministro, in quanto membro dell’esecutivo, non dovrebbe occuparsi di riforme: un ministro per le riforme è un ossimoro, perché il governo le leggi le applica, non le fa. Se no, si torna a quel lontano “c’era una volta un Re”. Ciò nonostante nessuno – né nel mondo politico né in quello dell’informazione – sembra mettere in discussione questo strano modo di procedere.

Venendo poi ai contenuti, l’elezione diretta del capo del governo non esiste in nessun Paese del mondo: esiste, sì, l’elezione diretta del capo dello Stato, ma quella del capo del governo no, non esiste proprio. Ma in che cosa si distingue il “premierato” dal presidenzialismo? E perché nessun ordinamento politico al mondo prevede l’elezione diretta del primo ministro?

Qui occorre una piccola premessa.

Il governo ha in mano le leve che manovrano i corpi di polizia, le forze armate, l’istruzione, la politica estera, la sanità, l’economia eccetera eccetera. L’elezione diretta del suo capo lo renderebbe più indipendente e meno controllabile. Ma senza il controllo parlamentare, quelle leve possono costituire una pericolosa tentazione, un rischio inutile che nessuna (ripeto: nessuna) democrazia finora ha voluto correre. Per converso, un presidente “all’americana” (l’esempio più marcato di presidenzialismo) ha molte limitazioni rispetto al nostro capo del governo, anche se erroneamente si crede che abbia poteri amplissimi. La sua elezione è del tutto svincolata, anche nei tempi, dalle elezioni di deputati e senatori, proprio per rimarcare l’indipendenza di questi ultimi; anzi non raramente si creano maggioranze diverse da quella del presidente. Altro che premio di maggioranza! Poi non può presentare disegni di legge (la cosiddetta “iniziativa legislativa”, che il nostro governo ha). Non può adottare decreti (il nostro ne fa anche troppi) se non su mandato parlamentare e in ambiti ben individuati. Non ha potere di stabilire il budget di spesa, che è appannaggio del parlamento. Men che meno può forzare il voto parlamentare ponendo la “questione di fiducia”, come troppo spesso avviene da noi. Mai e poi mai potrebbe, infine, presentare un disegno di riforma costituzionale. Non ha, insomma, una serie di prerogative – molto rilevanti e spesso usate e abusate in Italia – che appartengono ai governi delle repubbliche di tipo parlamentare e continuerebbero ad appartenere al premier eletto secondo questo progetto (o meglio minaccia) di riforma.

Ecco perché, in concreto, l’elezione diretta del premier non è stata adottata in nessuna democrazia: darebbe un eccesso di potere a una singola persona e sarebbe un ibrido istituzionale molto disfunzionale, privo di equilibrio e di contrappesi. Una torsione verso quel “c’era una volta un Re” con un po’ troppo potere.

Lo slogan cui ricorre la maggioranza è che finalmente gli italiani sarebbero governati da un premier eletto da loro. Suona bene ed è convincente. Ma forse in un sistema bipartitico, dove d’altronde non se ne sentirebbe il bisogno: in quel caso, automaticamente, chi vince governa. Nel nostro sistema multi partitico, invece, se si votasse domani, il premier potrebbe essere eletto anche con una maggioranza relativa – molto relativa – del 29% dei votanti (pari a circa il 20% dei cittadini, con la tara dell’assenteismo). Questo perché si prevede un’elezione a turno unico, senza obbligo di coalizione. Ma anche nel caso si formassero coalizioni, basterebbe una minoranza attorno al 40-45% per eleggere il premier. Non sono ipotesi, è storia recente. Infatti, se questa riforma fosse già stata in funzione, nel 2018 Di Maio sarebbe stato eletto premier grazie al 32% dei voti dei 5 Stelle, una maggioranza davvero molto relativa. Nel 2022 la Meloni sarebbe diventata premier eletto con il 44% dei voti della sua coalizione, che sempre minoranza è. Per dare potere a queste minoranze più o meno significative, anche questa riforma prevedrebbe un premio di maggioranza: un premio assoluto, che dia comunque una maggioranza parlamentare del 55%, qualunque sia il numero di voti ottenuti dalle urne. Un’altra cosa che fa un po’ a cazzotti con il concetto di democrazia e, badate bene, questo sarebbe addirittura scritto nella nuova Costituzione. Quindi si aprono due ipotesi: il premier è eletto da una minoranza, ed allora avrà una maggioranza stabile perché monocolore, ma non rappresenterà nessuno; oppure è eletto da una coalizione, che sarebbe più rappresentativa, ma non garantisce la stabilità: gli alleati, si sa, a volte tradiscono.

Ma ecco il colpo di genio! Per evitare questo rischio, al punto 3 del testo approvato dal Consiglio dei Ministri (ahimè, il governo scrive il testo di una riforma costituzionale: roba da vomitare, altro che “c’era una volta un Re”!) si stabilisce che, in caso di sfiducia, il primo ministro “possa essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di Governo”. Questo, più che una capriola, è un triplo salto mortale carpiato e avvitato. Ma se il primo ministro è elettivo, è ovvio che si debba ritornare alle urne, in caso di sfiducia. E poi, dal momento che è stato tolto al Presidente della Repubblica il potere di nominare il primo ministro, chi e con quale autorità dovrebbe nominare questo sostituto? E ancora, se il Parlamento toglie la fiducia al premier, di fatto vuol dire che boccia la sua linea politica: allora anche il sostituto dovrebbe essere sfiduciato, visto che deve “proseguire” nell’attuarla. A far fede sarebbe comunque “il programma di governo”, anche se non sempre è possibile applicarlo, e il governo attuale lo sa molto bene. Se oggi la riforma fosse già vigente, la Meloni dovrebbe essere sfiduciata perché il programma non lo ha attuato in molti punti: flat tax, blocco navale, pensioni, presidenzialismo eccetera. Ma l’eventuale “sostituto”, ammesso che si possa nominarlo, sarebbe altrettanto impossibilitato ad attuarlo. Un pasticcio tremendo!

Una costante del progetto di riforma è che il primo ministro debba essere “necessariamente un parlamentare”: il concetto è ribadito sia all’articolo 1 sia all’articolo 3. Ci è stato spiegato che questo servirebbe ad evitare i governi tecnici: peccato, però, che Monti fosse senatore! Ma a me sembra che serva soprattutto a consolidare la “casta”.

Eppure la stabilità dei governi in Italia è spesso stata un problema e mi stupisce che non si vogliano adottare due misure molto semplici e collaudate: il sistema maggioritario per produrre maggioranze più nette, e la sfiducia costruttiva per impedire gli sgambetti all’interno delle maggioranze. Sarebbe semplice, efficace e senza pericolo per la democrazia. E si potrebbe realizzare molto più velocemente rispetto a una riforma costituzionale e senza rischiare un referendum confermativo. Ecco perché, prima di ogni cosa, questo progetto di riforma puzza di imbroglio.

Per concludere, questo governo, che si auto elegge costituente ed affida l’elaborazione della sua epocale riforma a una signora Nessuno, non avrebbe potuto fare nulla di più pasticciato, velleitario e pericoloso. Viene da chiedersi a qual fine abbiano inventato questo inedito sistema, abbandonando la primitiva proposta di un sistema presidenziale. Ma proprio il fine, dissimulato dietro gli slogan apparentemente populisti, è ciò che mi preoccupa. Sa troppo di nostalgia per quando “c’era una volta un Re”. O meglio, un Duce.

Cesare Pirozzi

 

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