Il ragazzo e l’airone

Film cult, proprio nel senso di vero e proprio culto cine-religioso ancora prima che uscisse nelle sale cinematografiche. E in Italia dal primo giorno di proiezione, ossia dal 1° gennaio 2024, è saldamente al vertice nella classifica degli incassi: più o meno cinque milioni e mezzo di euro in un paio di settimane. D’altronde anche il suo autore, Hayao Miyazaki, è considerato un vero mito del cinema d’animazione. Ha voluto che in Giappone il film uscisse senza la benché promozione e pubblicità sui media di tutti i tipi. Per il lancio internazionale ha convocato un numero ben selezionato di giornalisti ed esperti nel suo – altrettanto mitico – Studio Ghibli, un vero e proprio, inaccessibile, inviolabile parco-sacrario ecologico, permettendogli anche di scattare foto.

L’opera è una summa vertiginosa non solo di tutta la sua precedente produzione, ma anche della sua vicenda biografica. Vertiginosa, nel senso letterale di vertigine, smarrimento, spiazzamento. Il racconto, infatti, ha un andamento per niente lineare, ma è un continuo, incoerente, imprevedibile cambio di scenari, situazioni, stratificato di rimandi che si intuiscono di densa simbologia, ma di non immediata comprensione. Per chi non conosce a fondo l’opera e la vita del Maestro, non resta che affidarsi alla formidabile tessitura grafica e cromatica, senza porsi troppe domande. E d’altronde è proprio a questa sensoriale, non intellettuale libertà d’interpretazione che lui chiama lo spettatore di ogni età, e anche senza età, fuori del tempo.

La vicenda è quella dell’adolescente Mahito che durante la guerra assiste all’incendio dell’ospedale e alla morte di sua madre. Suo padre, un ingegnere aeronautico, si sposa subito con la sorella di lei, che ha una somiglianza impressionante con la moglie scomparsa. Va a vivere da lei – che aspetta già un figlio da lui – in una zona di campagna lontana dalla città, dove c’è anche la fabbrica di aerei militari per cui lavora. Tutto questo e anche molti altri aspetti successivi della narrazione hanno precisi riferimenti sia nella vita, sia nelle precedenti opere di Miyazaki. Nel villaggio c’è una vecchia torre abbandonata e pericolante, alla quale a Mahito viene imposto di non avvicinarsi per nessuna ragione. Il divieto in sé e uno strano airone parlante, invece, attirano il ragazzo a varcare la scabrosa soglia. E una volta dentro gli si dischiude un mondo pieno di pericoli, prove che deve affrontare e superare. È un mondo in continuo, inaspettato mutamento, una pazzesco rompicapo, un incomponibile puzzle, un cubo di Rubik elevato alla radice cubica. Anzi, ogni lato della torre è un mondo diverso, con le sue leggi diverse, e un proprio sfalsamento spazio-temporale. Una Alice nel paese delle meraviglie, ma scaraventata dentro il vortice di un più potente ciclone narrativo. Un cosiddetto romanzo di formazione, perché il ragazzo deve essere degno di ricevere l’eredità che il vecchio zio patriarca al vertice della torre vuole lasciargli, per ricomporre i vari pezzi del mondo in scomposizione.

È l’eredita che lo stesso Miyazaki, ormai ultraottantenne, non sa a chi lasciare, considerato che suo figlio Goro non si è dimostrato artisticamente all’altezza. Gli stessi ideali ecologici, antibellici, di giustizia esistenziale per cui lui si è battuto non solo non si sono realizzati, ma sono peggiorate le condizioni a essi contrarie.

Avendo personalmente presentato e discusso del film con il pubblico del Cinema Farnese di Roma, posso testimoniare lo spiazzamento di grandi e di adolescenti, con le impellenti domande di questi. Forse, come ogni opera d’arte innovativa, anche questa ha bisogno di tempo per essere capita a fondo. Intanto, però, che sia un’opera d’arte non c’è alcun dubbio: linee, colori, dinamica dei suoi disegni lo manifestano in sé stessi.

Riccardo Tavani

 

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