Epitaffio a un genocidio: so di non sapere

Camminando, tra felci, il lisco e il brusco, sull’acropoli di Atene, sta Socrate al fresco. Al fresco delle fronde s’accorse che il mare veniva increspato da coccinelle marronio così sembravano.

Allungando il collo, a recchie ritte oltre le fronde, rimirando al meglio la lontananza dell’orizzonte, capì che non di insetti si trattava. Ma di dorata armata venuta ad approdar le sponde, da Dario armati fino ai denti.

Sentì lo sciabordio dell’onda e il risciacquar dei remi, che di spada di punta tonda rifletteva il sole anche sugli elmi.

Riflettendo sul celato assai evidente, di spostamento di popolo prepotente, sussultò su quella banale storia di gente. Banale perché armata e poi già vista finanche addove il Cristo deciderà poi di porre casa, poi detta Gaza. 

Frattanto coi calzari in acque salate approdano gli elmi dorati, così fregiati di schiavi in catene, di lividi pieni le gambe e le schiene. Sulle spalle un tiranno su dorata poltrona, Socrate guarda, pensa e lo scruta, quell’enorme potere gli piega la nuca, il mortale s’avvale di schiavi e di guerra per nascondere la sua idiozia ch’è  ignoranza non sapienzia. 

Sapere o non sapere, si chiede Socrate, farebbe differenza insieme al potere? 

E questo è quello che so di non sapere.

Michele Morelli  – Claudio Caldarelli

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