La strage di Dacca che fa male al cuore

Fois

Le armi, gli ostaggi, poi gli spari, le urla delle vittime e quelle dei carnefici che, al grido di “Allah Akbar”, lasciano a terra 28 cadaveri. Una storia già vista, purtroppo, che conosciamo bene. Le modalità operative tipiche dello Stato Islamico, il terrore tra la folla, i fucili puntati, i versi del Corano, infine la morte. Solo che non siamo in Iraq, non siamo in Libia, né in Iran, né tanto meno in Francia. Siamo a Dacca, capitale del Bangladesh, paese di cui non sappiamo nulla, se non che molti ragazzi che oggi vendono accendini e birre per le vie di Roma vengono proprio da questo paese. Ho avuto modo di fare amicizia con loro, di imparare qualche parola della loro lingua, di trascorrere insieme qualche minuto per condividere tradizioni e ideali diversi. Ed è proprio per questo che la strage di Dacca fa male al cuore. Perché la sensazione è quella di esser stato tradito da un popolo che ho sempre considerato amico. Ma non c’è nessun tradimento, nessuna congiura. I ragazzi che ho conosciuto a Roma non c’entrano nulla con la follia di Dacca, non ne vogliono parlare, abbassano la testa, se ne vergognano. Forse, come dicono in molti, siamo di fronte alla terza guerra mondiale, ma c’è voluto l’attentato di Dacca per farmelo capire. Una guerra che si gioca con modalità diverse rispetto alle prime due, che si fonda sull’odio, sulla xenofobia e, punto fondamentale, sulla capacità di fare di tutta l’erba un fascio. Dire che i nordafricani sono tutti terroristi solo perché di fede musulmana è la chiave di volta della questione. Solo che per capirlo ho dovuto attendere che al centro del ciclone ci fossero dei miei amici, con i quali mi son sempre trovato in sintonia, forse più della maggior parte delle persone della mia stessa nazionalità. Se solo riuscissero a capirlo tutti, non ci sarebbe bisogno di temere, tremare e di parlare di terza guerra mondiale. La ricerca della pace parte da noi e dal nostro modo di saper distinguere i giusti dai fuori di senno. Diamoci da fare.

Di Giovanni Antonio Fois

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