Talking to the Trees

Riccardo Tavani

Il titolo si rifà alla tradizione dei bambini cambogiani di accompagnare la loro crescita parlando a un proprio albero, circondandone il tronco con un pareo, i cui lembi sono trattenuti nei piccoli pugni, confidando e affidando a lui timori, dolori, sogni, speranze. Solo che in questo film alberi e bambini vengono stuprati da una identica insana follia umana. Follia di domino, sfruttamento ai propri fini economici e di possesso su esseri umani e naturali.

Così dalla prima scena di luce e rigoglio del paesaggio cambogiano nel quale Mia, la protagonista, giunge da Parigi, si passa a una sua rapida discesa nel buio. Vediamo i suoi piedi nudi camminare su un asse di legno viscido, instabile per inoltrarsi tra misere capanne di foglie dentro un vero e proprio incubo antropologico, tanto orrido, quanto del tutto vero.

La piaga della prostituzione infantile non è da tempo più confinata alle sole zone diseredate del terzo e quarto mondo, ma – attraverso lo sfruttamento dei minori migranti non accompagnati – è entrata nelle ricche metropoli occidentali, con realtà e cifre statistiche sempre più preoccupanti. Guido Freddi, che è anche produttore, e Ilaria Borrelli, che è anche interprete protagonista, realizzano questo coraggioso film per squarciare il velo su una raccapricciante realtà misconosciuta, rimossa dalla nostra coscienza pubblica. La forma cinematografica è quella del road movie, anzi del river movie. Una drammatica fuga per la libertà di una donna e tre bambine, lungo le strade, le periferie, i villaggi, i fiumi, gli intrichi boschivi e le spietate trappole umane di una realtà tanto esotica quanto inesorabile. Le peripezie angosciose affrontate, i momenti di salvezza e respiro corrono insieme al mutare di un eden paesaggistico in vasti tratti violentato, proprio al pari di quelle bambine. La “ferita della giungla” si chiama uno di queste vaste strisce di paradiso stuprate da massicci disboscamenti industriali. Una delle bambine dice: “Tutti in Cambogia sanno dove si trova la ferita”. Come tutti sanno quello che accade a migliaia di ragazzini e ragazzine come lei.

Proprio a causa di questo scabroso tema, durante le riprese, la troupe ha subito intimidazioni, minacce, tentativi di estorsione, che hanno messo più volte rischio la realizzazione dell’opera. Giulia Borrelli ci ha detto che a proteggerli, ad aiutarli sono stati gli stessi abitanti dei luoghi che volevano venisse conosciuta quella inaudita violenza subita da molte loro famiglie, ma che in alcuni momenti se la sono vista proprio brutta. Il film non indulge mai a troppo facili intenti didascalici o moralistici. L’orrore non è però mai mostrato nella sua immagine diretta. Rappresentare l’irrapresentabile, dargli una qualche forma artistica, farne spettacolo cinematografico, sarebbe infatti intollerabile, sia per la nostra vista che per la nostra coscienza critica. Esso viene solo accennato e poi indirettamente mostrato attraverso lo squallore, il putridume stratificato che galleggia attorno a quelle capanne postribolari dietro cui si cela.

Il contrasto tra la bellezza della natura e la tragedia antropologica, l’aggressione che essa stessa deve patire, si acuisce man mano che la fuga si avvicina o torna ad allontanarsi dalla sua meta. E’ un contrasto aspro tra le stesse fuggitive e la loro liberatrice, ormai smarrita, stordita, sopraffatta dalla forza di una realtà soverchiante la sua. Non è più essa la guida, ma è guidata nella giungla reale e simbolica nella quale vaga ormai disperata. Uno scontro interiore ed esteriore che non vuole illuderci affatto sulla possibilità di risolvere facilmente questa piaga. D’altronde – come anche il film ci mostra – protagonisti olimpicamente infernali sono proprio molti dei nostri tranquilli concittadini occidentali che creano era espandono questa domanda in tutto il mondo. Il film ha ottenuto numerosi e meritati riconoscimenti dalle maggiori istituzioni mondiali, tra cui l’Unicef, la Commissione Europea, Amnesty International, oltre che di diversi festival cinematografici internazionali. E’ nato in Italia, come progetto, ideazione, scrittura e un finanziamento al minimo, ottenuto attraverso un crowdfunding, ossia una sottoscrizione pubblica. Eppure proprio e solo in Italia esso sembra destinato a rimanere sconosciuto, censurato. Noi lo segnaliamo e lo consigliamo con convinzione, perché lo merita e anche per incoraggiare i due autori che sono già pronti a partire per un loro nuovo progetto in Africa.

di Riccardo Tavani

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