Fidel: ce la farà la storia a scrivere una pagina davvero nuova?

Riccardo Tavani

La Noche Buena, la notte di Natale del 2002 mi fermo nella città di Camagüey, diretto a Santiago de Cuba, proveniente da Trinidad e prima ancora da L’Avana. Attorno a mezzanotte c’è abbastanza gente tra le strade e le abitazioni in stile neocoloniale del centro. Insieme alla famiglia nella cui casa ho preso alloggio, seguo il flusso fino alla Iglesia Nuestra Señora del Carmen, sull’omonima Piazza. La Chiesa è affollata e il rito molto partecipato. Me ne vado dopo un po’, per rincontrare alla fine della Messa quella famiglia, padre, madre e due figlie. I due coniugi sono però separati. Sediamo in un bar a bere qualcosa. Passano solo il Natale insieme. Un giovane cameriere viene a salutare la signora con molto affetto e rispetto. Lei è una professoressa di Letteratura, guadagna otto dollari al mese. Quel cameriere, è un ex collega di Storia. Ne guadagnava sette di dollari. “Da cameriere – mi dice – arrivo fino a tredici. Per questo ho smesso di insegnare: ho due figli”. Lei è legata al Partito Comunista di Cuba, ma non per questo è meno scontenta di come vanno le cose sull’Isola, anzi. Le dico che mi sembrava evidente che Fidel avesse stretto un patto con il Vaticano quattro anni prima, quando – dal 21 al 26 gennaio 1998 – Papa Wojtiwa era venuto in visita a Cuba. Questo patto sarebbe stato il loro unico filo di speranza dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Lei mi risponde che questo non bastava. Quel filo di speranza, però, è arrivato fino al Papa gesuita attuale, Francesco, e al miracolo diplomatico da lui compiuto nello smantellamento del muro di mare che separava ancora i fratelli Castro da Obama.

In quegli anni Cuba si stava ancora leccando le brucianti ferite del cosiddetto Periodo Especial, seguito al Crollo del Muro di Berlino e dell’intero campo socialista. Senza più il sostegno proveniente da quell’area geopolitica, l’isola caraibica si ritrovò alla fame più nera. Senza più carburanti, energia elettrica, per far camminare l’economia, i trasposti, illuminare le case, le scuole e far funzionare gli ospedali. La libreta, una specie di nostra tessera annonaria di buona memoria, non serviva per prelevare niente. Gli spacci di Stato erano completamente vuoti, al massimo qualche pezzo di sapone. Forme di prostituzione di diverso grado tornano a proliferare sotto l’occhio vigile della polizia. Nel 1999 Hugo Rafael Chávez Frías diventa Presidente della Repubblica Bolivariana di Venezuela e àncora alla sua immane piattaforma petrolifera continentale anche l’isola di Cuba. In cambio Castro gli mette a disposizione gli apparati migliori della sua intelligence, al fine di sventare complotti, colpi di Stato e attentati alla vita di cui il nuovo líder centroamericano sarebbe ed è stato oggetto. Quegli stessi rinomati servizi segreti cubani che di attentanti contro Fidel ne hanno sventati 638, tutti fabbricati dagli Usa, sotto gli 11 Presidenti che si sono succeduti dalla presa del potere dei barbudos nel 1959 alla morte naturale del loro Líder Maximo in questo fine novembre 2016. Lo sbarco nell’aprile del 1961 alla Baia dei Porci fu il tentativo più massiccio attuato dagli Usa per rovesciare il giovane governo rivoluzionario cubano. 1400 dissidenti anticastristi, addestrati dalla CIA e con l’appoggio aereo garantito direttamente dal Presidente John Kennedy. Un fallimento totale: 104 assalitori uccisi in battaglia, tutti gli altri catturati, processati, presto rilasciati e rispediti in Usa. Forse, tra i molti di quelli che ieri a Miami hanno brindato e festeggiato per la morte di Fidel c’erano anche i figli e i nipoti di quegli anticastristi liberati da Castro allora.

Quando dopo Natale arrivo a Santiago de Cuba, la prima cosa che mi reco a visitare è il famoso Cuartel Moncada, Caserma della Moncada, oggi quartiere studentesco. Rimango stupito per quanto le mura di recinsione siano basse e facilmente penetrabili. I muri sono ancora crivellati dai colpi di pallottole sparate durante l’assalto del 26 luglio 1953. Fidel e suo fratello Raúl guidano all’alba di quel giorno un catastrofico attacco che porta all’uccisione immediata di sessantuno dei suoi compagni, la cattura e successiva tortura a morte di un’altra ventina. Catturato una settimana dopo, Fidel è processato e condannato a morte, condanna poi commutata a 15 anni di reclusione sulla Isla de la Juventud. Durante questo processo Fidel pronuncia la celebre frase: “La Storia mi assolverà”. Di lì comincia la sua riscossa. Amnistiato ed espulso da Cuba, si reca prima negli Stati Uniti, poi in Messico. Lì acquista – per 17.000 $ – uno yatch di 19,2 m, il mitico Granma, e lo stipa di 80 combattenti, tra cui il dottor Ernesto Guevara de la Serna, detto Che, a causa del suo tipico intercalare argentino. Sbarcati il 2 dicembre 1956 non lontano da Santiago si nascondono sulla Sierra e da lì iniziano un’offensiva che non ha più termine, fino alla fuga del dittatore Fulgencio Batista da L’Avana.

Come è possibile che il rampollo di una famiglia bene, educato e istruito nel miglior collegio gesuita dell’Isola, avvocato democratico che nel 1952 ricorre alla carta bollata per denunciare Batista, diventa la guida di un governo rivoluzionario che di lì a poco abbraccerà il comunismo? A questa domanda avrebbero dovuto rispondere gli Usa, ma non l’hanno mai fatto. Quando il 15 aprile 1959, Castro si reca in visita alla Casa Bianca, l’allora Presidente Eisenhower, dicendosi impegnato a giocare a golf, lo fa ricevere dal suo Vice Richard Nixon, con il solo scopo di scoprire se fosse comunista e filo-sovietico. Nixon gli riferisce poi che il cubano gli era sembrato decisamente più un naif che un comunista.

La rivoluzione cubana accende immediatamente in tutto il mondo un forte squarcio di speranza nel cielo plumbeo della guerra fredda, dell’equilibrio atomico tra Usa e Urss. La speranza in una possibilità di liberazione diversa, aperta, creativa, movimentista, non rigidamente gerarchica, burocratica, ideologica, oppressiva. Una rivoluzione dal volto, dai modi, dal sorriso, dai ritmi umani. E questo non solo nel vasto continente latinoamericano, ma anche nel cuore avanzato, neocapitalistico dell’Europa Occidentale. Uno squarcio che ha il respiro vasto della Storia, e per questo la morte di Fidel Castro oggi richiama soprattutto quella brezza frizzante d’oceano che percorse in un lampo tutto il pianeta. Che la sola possibilità di quello stato nascente si sia accesa, anche per un solo istante storico, e che ad accenderla siano stati Fidel, il Che e gli altri barbudos guerriglieri male armati ma eroici, scaltri, geniali nel combattere, resta inciso sotto la pelle e pulsa ancora nelle vene di chi fu colto, sebbene da lontano, da quella luce di speranza.

Quando a Capodanno giungo a Santa Clara, visito il treno militare fatto deragliare e assaltato poi dagli uomini al comando del Che, lasciato vicino al ferrocarril, alla ferrovia, come reperto storico a cielo aperto. Faccio la conoscenza di Orlando che mi dice di aver partecipato da ragazzo all’entrata di Guevara in città. Nel Mausoleo che ospita le sue spoglie e quelle dei ventisei compagni della spedizione in Bolivia, domando a Orlando se la Storia assolverà davvero Castro, anche quello di soffocante, oppressivo potere politico, poliziesco, carcerario, cresciuto insieme ai lunghi anni di bloqueo, ossia di embargo, strangolamento economico americano. Mi risponde che Fidel era il meglio che un popolo fino allora sottomesso, tenuto nella miseria e nell’ignoranza potesse esprimere. “Se ha fallito lui, vuol dire che è la Storia stessa a non avercela fatta”. Che la scomparsa di Castro sia coincisa con la comparsa negli Usa di un Presidente come Trump, sembra dare una qualche ragione a quella lontana risposta di un vecchio cubano sotto la statua del Che. Intanto quella pagina ora si chiude definitivamente: ce la farà la Storia a scriverne una davvero nuova?

di Riccardo Tavani