Quel muro tra Santiago del Cile e l’Italia

Nanni Moretti coglie uno dei momenti più drammatici del suo film proprio quando dà la parola all’avversario. Un documentario, infatti, non può sottrarsi a una delle regole fondamentali che è anche dei film di finzione. Se c’è un protagonista, deve esserci anche un’antagonista, che esprime le sue ragioni con altrettanta se non superiore forza del primo. Nel film di Moretti Santiago, Italia, il protagonista collettivo si compone di molte persone che sono riuscite a scampare agli arresti, alle uccisioni, alle torture, alle sparizioni successive al colpo di stato militare dell’11 settembre 1973 in Cile. Molte delle persone scampate si sono rifugiate dentro l’Ambasciata italiana a Santiago, per poi approdare in Italia, dove hanno vissuto, hanno lavorato, integrandosi, diventando italiani a tutti gli effetti. È questa vicenda, soprattutto, su cui Moretti vuole tornare e restituire alla memoria, per il suo significato non solo storico ma attuale.

Quel settembre del ’73 l’esercito cileno scende all’alba sulle strade e sulle piazze di Santiago, entra nelle case di migliaia di attivisti schedati ed esponenti pubblici della sinistra, arrestandoli in massa e deportandoli dentro lo stadio di calcio. L’Aereonautica bombarda il Palazzo della Moneda, la sede istituzionale della Presidenza della Repubblica. Salvador Allende, il presidente socialista legalmente eletto il 3 novembre 1970, resiste armato di una mitraglietta insieme ai suoi uomini. Poi, per evitare il peggio alla popolazione, si arrende, essendo ancora non del tutto chiarito se sia stato ucciso dai militari, o si sia ucciso lui stesso con quell’arma che impugnava. Il regista ricostruisce quella tragica pagina attraverso filmati di repertorio e numerose testimonianze di persone che l’hanno vissuta direttamente, incappando o scampando ai rastrellamenti e agli arresti operati da tutti gli apparati di repressione mobilitati dal golpista capo, il generale Augusto Pinochet, sostenuto, anzi, si deve dire, incaricato all’uopo dagli Stati Uniti d’America.

Un ex generale golpista cui Moretti dà la parola, giustifica pienamente tutto quanto fatto dall’esercito, per salvare il paese, la patria dal precipizio in un regime marxista. Nega però ci siano state torture, uccisioni, sparizioni, se non limitate a pochi casi, dovute a iniziative personali di militari che non si sono attenuti agli ordini. C’è invece un altro antagonista, un ufficiale che non nega le torture, ma vuole gli sia data la possibilità di inquadrarle dentro il contesto politico di allora che leimponeva. Chiede comprensione proprio a Moretti, dicendogli che gli hanno garantito che lui è un regista imparziale. E questo è – appunto – uno dei punti più acuti del film, per la risposta che il regista dà all’intervistato.

Il muro dell’Ambasciata italiana è Santiago è stato – come forse raramente accade nella storia – un muro di salvezza e non di respingimento. Riuscire a scavalcarlo, significava mettere tra sé e i militari un grado di separazione decisivo: quello dell’extraterritorialità e intangibilità politica riconosciuta a uno stato estero. Il racconto del diplomatico italiano Pino De Masi, filmato dal Moretti, è come mettesse anche noi dietro quel muro, che in settecentocinquanta riuscirono a scavalcare, facendoci rivivere l’ansia, la speranza, la tensione di quel lungo periodo e –soprattutto – le ragioni che indussero l’ambasciatore e gli addetti ad accogliere tutte quelle persone, rischiando loro stessi in prima persona. “Scappavano – dice De Masi – come oggi scappano dall’Africa”.

L’altro punto alto è toccato nel film dalla domanda fatta a Erik Merino, uno dei rifugiati nell’Ambasciata italiana, riparato poi anche lui in Italia, dove è diventato con il tempo un imprenditore. Nanni Moretti gli chiede come ricorda quei suoi anni giovanili di militanza politica. Ed è qui la lunga pausa, l’imbarazzo, la voce rotta dall’emozione dell’intervistato a riconnetterci fulmineamente all’imparzialità, al contesto di normalità, preteso dal torturatore intervistato. Proprio quel silenzio difficile fa riemergere tutto insieme, sorprendendo inaspettatamente anche chi la conosce quella tragedia, le sevizie, gli stupri alle speranze, agli ideali di una generazione di ragazze e ragazzi cileni, che volevano vivere e si battevano per un paese non più asservito alla miseria, all’analfabetismo, alla razzia di risorse, imposto dal padronaggio delle compagnie internazionali e nordamericane.

Il documentario, di impostazione classica, gode di una chiarezza narrativa e registica, resa più nitida dalla solita impeccabile fotografia di Maura Morales Bergman, questa volta motivata non solo professionalmente, ossia dal lavorare con un regista importante e per questo estremamente esigente, ma forse anche dall’essere lei proprio di origini cilene.

di Riccardo Tavani

 

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