Mariam Moustafa, uccisa da sei bulle in Inghilterra

Immaginate una storia, un racconto, il trailer di un film da brivido, di quelli che vi fanno trattenere il respiro e non dormire la notte perché le immagini tornano, vi perseguitano, vengono a bussare alla coscienza di chi ne ha una.
Solo che questo non è un romanzo, né un film. Non è finzione, non ci sono scrittori e neppure registi.
Questa è la realtà.
Siamo a Nottingham. Inghilterra. Sono le 20 del 20 febbraio 2018. Persino questi numeri sembrano essere stati giocati su un destino avverso. Mariam Moustafa, una ragazza di 18 anni, nata e cresciuta a Ostia ma di origini egiziane, che ha scelto di trasferirsi da quattro anni nel Regno Unito per realizzare il sogno di studiare ingegneria, aspetta l’autobus in Parliament Street, fuori dal Victoria Centre.
Improvvisamente, senza un perché, senza motivazioni, viene avvicinata da un gruppetto di ragazzine, tra i 15 e i 17 anni, minorenni, più piccole di lei. Iniziano a spintonarla, a chiamarla “Black rose”, una frase con evidente sfondo razzista. Mariam, pur nella paura che la pervade risponde con fermezza che no, lei si chiama Mariam, come a rivendicare la sua identità, il suo essere persona che come tale va trattata e rispettata.
E proprio questa determinazione nella risposta innesca la rabbia cieca e furiosa della baby gang. Le ragazzine si avventano sulla ragazza con violenza inaudita. Prima alla fermata e poi ancora sopra il bus sul quale Mariam sale nella speranza di sfuggire al gruppetto. Però loro la seguono, la circondano con fare minaccioso, iniziano a picchiarla, calci e pugni anche in testa. Sola. Mariam viene brutalmente colpita per il tempo necessario a scrivere quello che sarà poi un drammatico epilogo.
Al pestaggio riesce a mettere fine solo l’intervento dell’autista che a fatica sottrae Mariam da quell’assalto.
La ragazza inizia ad accusare forti mal di testa. Così decide di recarsi al Queen’s medical center, ospedale in cui i sanitari inglesi la visitano e, pur notando delle macchie sul cervello (come dimostrano i referti medici), la dimettono dopo poche ore: nessuno si sarebbe accorto della grave emorragia celebrale che quelle percosse le avevano causato. Ma durante la notte, la giovane sta male e viene ricoverata al Nottingham city hospital. Ormai però per lei è troppo tardi: Mariam, che da anni soffre di cuore, entra in coma. Un coma da cui non si risveglierà più. La morte per lei arriverà dopo 22 giorni di agonia, il 14 marzo del 2018.
Ora apprendiamo che le sei giovani indagate avrebbero confessato l’aggressione. In precedenza solo due avevano ammesso le proprie colpe. Ma proprio perché la morte era giunta in seguito ad un malore, le sei teppiste per la giustizia britannica, non furono accusate di omicidio ma semplicemente di rissa e aggressione. Il 10 maggio, data ultima per la pronuncia della sentenza, conosceranno il loro destino.
A distanza di un anno, il padre Hatem (che è rimasto a vivere a Nottingham con il resto della famiglia) non si dà pace, specie dopo gli ultimi risvolti medico legali. Lancia un appello al mondo, in particolare al governo italiano e racconta: “Secondo le ultime perizie, la mia bambina è morta per cause naturali e non per le conseguenze delle percosse ricevute il 20 febbraio. In Inghilterra le indagini si stanno chiudendo così, ma io non posso accettare che se ne lavino tutti le mani in questo modo. E non accetto che lo faccia l’Italia, che è il paese in cui Mariam è nata e cresciuta. Non voglio rinunciare ai miei diritti e a quelli di mia figlia. Ed è per questo che lancio un appello al nostro paese, al prefetto di Roma o a chiunque possa fare qualcosa in merito perché mi aiutino, perché esaminino tutte le carte del processo e tutti i referti medici. Il governo italiano, l’ambasciata italiana in Inghilterra, nessuno si è mai interessato a noi. E questo è stato un altro grande dolore.
Perché mia figlia è morta sola, senza l’aiuto di nessuno e adesso vogliono farla morire per la seconda volta. Tutti noi, con lei, siamo morti allora.
Non passa giorno in cui io non pensi alla mia bambina, alle atroci sofferenze che ha subito, alle violenze senza senso. Penso alla sua paura, quella sensazione di non avere vie d’uscita, l’impotenza, il tentativo vano di difendersi, il dolore, la disperazione e quella sensazione di solitudine. Nessuno è intervenuto a quelle grida d’aiuto. Non posso non sentire forte il senso di colpa per non essere stato lì, con lei, accanto a lei, quel giorno di un anno fa, per proteggerla, per schivare quei colpi, per far scappare quelle delinquenti e si… forse sarei stato io l’aggressore pur di proteggere mia figlia… forse non mi sarei fermato e la mia rabbia, motivata, giustificata, comprensibile avrebbe preso di mira tutte e sei le ragazze. E non avrei avuto pietà per nessuna di loro. Non mi vergogno a dirlo. Avrei preferito che mi arrestassero per questo e passare tutta la vita in prigione pur di sapere mia figlia viva. Ancora viva, come mi piace ricordarla tutte le notti. E le mie sono notti senza sonno, ad occhi aperti e il cuore che pulsa all’impazzata, sono notti in cui le lacrime accompagnano i miei pensieri in quell’assenza che ora è colma di tante, troppe cose che mai ci siamo detti. Perché la vita a volte va così. Si danno le cose per scontate e poi basta un attimo… un solo attimo perché si faccia buio attorno a noi. E’ un buio che fa male dentro, sono brividi di tormento che nessun sole potrà mai scaldare. E ora, oltre a chiedere aiuto, vorrei lanciare un appello a tutti i genitori. Cercate di esserci per i vostri figli, seguiteli, aiutateli, amateli altrimenti diventeranno giovani in cerca di folli “distrazioni” per colmare una vita piatta, senza stimoli, senza sogni, priva di desideri, fantasie, ambizioni, aspirazioni. Figli senza sorrisi che uccidono per “noia” altri figli. La mia bambina è stata uccisa anche dall’indifferenza generale. Se non posso più guardarla negli occhi è solo perché qualcuno, quel giorno, ha voltato i suoi da un’altra parte. E io ora sono qui, con il mio straziante dolore e le mie sono notti senza sonno, ad occhi aperti e il cuore che pulsa all’impazzata. Sono notti in cui le lacrime accompagnano i miei pensieri in quell’assenza che ha ucciso anche me”.

di Stefania Lastoria

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