Elogio delle condizioni

Condizione significa dire insieme, accordarsi, con-venire sul significato di una cosa e sulle conseguenti azioni da intraprendere congiuntamente. Ora che la Commissione Europea sta varando un nuovo piano economico da 750 miliardi di euro, più gli altri strumenti già deliberati, ci si domanda ancora quale siano per l’Italia le condizioni, ossia le trappole in forma di clausole cui sottomettersi. Il nostro paese sarà il maggiore beneficiario del Recovery Fund, con 170 mld di euro, essendo stato il primo e il più colpito tra gli Stati europei. Semmai la domanda dovrebbe essere: quanto tempo impiegherà Bruxelles per approvare definitivamente tale piano e attaccare il bocchettone dei soldi tra le sue casse continentali e quelle nazionali? In quanto alle condizioni, beh, queste dovremmo imporcele innanzitutto noi italiani.  

Sia il deficit italiano – ossia la differenza tra entrate e uscite annuali dello Stato – che il debito pubblico – cioè l’accumulo anno dietro anno di tale deficit – sono continuati a crescere ininterrottamente. Era già di 2.409,2 miliardi – pari al 134,8% del Pil prima di Covid-19 –, arriverà sul 170% a fine anno. La condizione che l’Italia stessa dovrebbe porre a sé stessa dovrebbe essere quella di pulire, sanificare almeno la parte più lurida di tale debito. Una misura che non solo non costerebbe niente, ma ci farebbe anzi guadagnare sia materialmente, sia in credibilità internazionale. Soprattutto toglierebbe forza virale all’obiezione degli Stati a noi ostili così riassumibile: “Perché noi dovremmo continuare a pagare l’evasione fiscale, l’inefficienza, la mafia, il malaffare politico italiano?”. Per gli italiani che pagano le tasse, se non ci fosse questo sovrapprezzo del cinico disprezzo civico, di tasse se ne potrebbero pagare di meno e in modo più utile. 

Non è tanto la spesa pubblica in discussione, dato che essa può favorire la ripresa. È prima di tutto l’inefficienza, gli sprechi, gli abusi perpetrati dalla pletora di amministrazioni pubbliche sotto il flagello dell’ingordigia politico-clientelare. Scrivevamo nel 2017: “L’evasione fiscale italiana resta la più alta del continente. Secondo il Rapporto Eurispes 2016 – a fronte di un Pil ufficiale di 1.500 miliardi – l’Italia ne aveva uno sotterraneo di altri 540, cui si devono aggiungere ulteriori 200 derivanti dall’economia criminale. 740 MLD in più di Pil sommerso significa che – calcolando una tassazione del 50% – ci sono altri 370 MLD di evasione. L’ammontare totale dell’evasione fiscale in Europa è di circa 1000 MLD, di cui 860 di evasione e 150 di elusione. L’Italia da sola raggiunge il record continentale assoluto con quasi il 30% di tale illegale sottrazione economica”. Percentuale che sale ora fino a circa il 35% per l’evasione dell’IVA, dei contributi lavorativi e per la malversazione amministrativa.

Ripetiamo, non si tratta, né ci è in questo momento chiesto,  di riassorbire totalmente il debito. Ma sarebbe un segnale decisivo mostrare che – di quegli oltre 2000 mld – a recuperarne almeno un centinaio di corruzione-evasione siamo capaci per dimostrare un cambiamento concreto. Cominciare a ripulire, depurare dai liquami neri tale debito permetterebbe innanzitutto all’Italia di contrapporre un’argomentazione molto più seria e valida per tutta l’Europa: quella di un’unificazione fiscale contro il dumping sulle tasse praticato alle multinazionali dai diversi Stati – come l’Olanda – sempre in prima fila contro il Bel Paese. Più importante, però, sarebbe che quel drenaggio ci consentirebbe di impostare una diversa politica economica. Un corso di giustizia sociale, fiscale e ambientale, perché proprio nella crisi del contagio abbiamo visto quanto quel putridume di evasione, elusione, corruzione produttiva, amministrativa, affaristica e dell’habitat naturale gravino sul funzionamento di strutture pubbliche, quale quelle cruciali della sanità. Questo anche perché il bocchettone del Recovery Fund, quello dei 170 mld, viene attaccato alle  nostre casse sulla sacrosanta condizione da elogiare di progetti qualificati, non su quella condizione nazionale chiamata la qualunque clientelare-elettorale.

di Riccardo Tavani

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