Quer pasticciaccio brutto de Glasgow: l’impossibilità di accordarsi sulla propria sopravvivenza

Si è conclusa la COP 26 di Glasgow, con la solita e forse un po’ ipocrita soddisfazione dei leader politici. Molti osservatori e qualche protagonista sono stati, tuttavia, assai poco soddisfatti.

Greta Thunberg ha confermato il suo giudizio drastico (è solo bla bla bla), ma anche il presidente della conferenza, Alok Sharma, era visibilmente addolorato per la scarsità dei risultati raggiunti.

In effetti, qualche perplessità è più che legittima. Per esempio, è stato raggiunto l’accordo per far cessare le deforestazioni in tutto il mondo. Sembra una cosa ottima, ma come mai Bolsonaro – il grande deforestatore – l’ha sottoscritta? Per due buoni motivi: l’accordo non è vincolante (nessuna sanzione è prevista per chi non lo rispetta) e, soprattutto, gli concede un decennio di tempo per tagliare tutti gli alberi che vuole. In realtà ha avuto la garanzia di poter deforestare impunemente fino al 2030, nonostante le denunce pendenti nei suoi confronti alla Corte internazionale de L’Aja, proprio per quel motivo.

Al di là della delusione, che è inevitabile per la pochezza e la miopia degli accordi, la COP è stata utile a capire meglio quali siano i termini del problema, cioè perché mai accordarsi sulla propria sopravvivenza debba essere così paradossalmente difficile.

Uno degli scogli che i governi non sono riusciti a superare potrebbe essere così riassunto, con un po’ di superstite ironia: vai avanti tu, che mi viene da ridere. I paesi più industrializzati e più ricchi vogliono che quelli più poveri e meno evoluti tecnologicamente procedano subito alla riduzione delle emissioni. Tra l’altro, non hanno finito di versare tutti i soldi che avevano promesso a Parigi per aiutarli nella transizione. I paesi emergenti, di cui l’India è il maggior rappresentante, fanno un discorso un po’ diverso: poiché la produzione di CO2 da parte di Paesi industrializzati è molto più alta della nostra, tocca a loro ridurla più drasticamente e per primi; noi che già ora ne produciamo di meno abbiamo diritto a un maggior lasso di tempo per adeguarci. In effetti, se si fa riferimento alla produzione di CO2 pro capite, l’India sta piuttosto indietro (1,77 tonnellate nel 2020) rispetto agli USA (14,30), al Giappone (8,19) e alla media mondiale (4,49). La differenza è davvero eclatante, e non posso non concludere che l’India ha ragione: tocca ai più ricchi ridurre di più e cofinanziare la transizione dei più poveri. D’altronde sul pianeta non ci si può salvare da soli: o tutti o nessuno. È pur vero che noi ricchi rischiamo di diventare un filino più poveri, ma il risultato finale sarà comunque favorevole alle nostre come alle loro economie, se proprio di soldi si vuol parlare. Infatti, se non attuiamo questa benedetta transizione ecologica, presto saremo tutti poverissimi: voglio proprio vedere come saremo ridotti con due o tre gradi di temperatura in più, visto che già oggi un solo grado in più pesa abbastanza sull’economia per i danni al territorio, alle case, alle infrastrutture e alla produzione agricola. Personalmente preferisco rallentare la crescita del PIL, perché di questo si tratta con buona pace degli economisti, se serve a ridurre i gas serra; sarebbe un utile investimento e non uno spreco, un beneficio e non un danno.

L’altro aspetto che è diventato ben evidente, è il cambiamento di strategia da parte delle forze economiche e politiche che vogliono ostacolare la transizione ecologica. Certo, non è cambiato il motivo: il timore di una relativa riduzione della propria ricchezza. Con grande miopia, sono disposti ad andare a una inevitabile bancarotta nel lungo termine, pur di non rinunciare a nulla nel breve termine. Dire stupidi è dir poco, ma sono loro che comandano, a quanto pare. Negli anni passati, l’atteggiamento era tipicamente negazionista: non è vero, non è colpa del gas serra, comunque non ci sono prove scientifiche. Ma oggi sappiamo tutti che è vero, e i fenomeni climatici estremi che flagellano tutti i continenti rendono ormai impossibile negare. E allora la parola d’ordine è cambiata: è vero, sì, ma non c’è fretta, se no affossiamo l’economia. La tecnologia – dicono – porterà nuove soluzioni: ci saranno le centrali nucleari sicure, le macchine e le centrali a idrogeno. Allora, perché agitarsi, aver fretta, voler subito una transizione costosa alle rinnovabili?

Potrebbe sembrare un discorso sensato, in realtà è un inganno. Infatti, se domattina, per un qualche miracolo, si azzerasse la produzione di CO2, la percentuale di gas serra nell’atmosfera e, di conseguenza, la temperatura rimarrebbero immodificati. Se riuscissimo a raggiungere la neutralità carbonica nel 2030, come inizialmente ipotizzato e rapidamente dimenticato, l’aumento della temperatura in questo secolo sarebbe contenuto a “solo” un grado e mezzo. Se la raggiungessimo nel 2060, come vuole l’India, a che temperatura arriveremmo? La tattica di rinviare ha gli stessi effetti del negazionismo, solo che è meno evidente, più subdola perché mimetizzata in discorsi più aperti. 

India, Cina e USA sono stati d’accordo nelle conclusioni finali: non ci si impegna più ad abbandonare il fossile, ma solo a ridurlo; i finanziamenti per tale processo non inizieranno subito, ma più tardi; i paesi che subiscono i danni maggiori dal cambiamento climatico saranno risarciti, ma nessuno sa come e quando. In altre parole, le lobby dei combustibili fossili hanno vinto, chi guadagna dal petrolio a danno dell’intera umanità continuerà a farlo a tempo indeterminato. È pur vero che prima o poi smetterà di arricchirsi, ma il più tardi possibile, e chi se ne frega dei danni collaterali. Forse credono di potersene andare su un altro pianeta, non ancora rovinato. O che basti avere una Tesla e una casa climatizzata. Dispiace che la stragrande maggioranza dei governanti gli regga il gioco, ma è così, non possiamo più illuderci.

Se qualcuno pensa che io esageri, può guardare questo grafico. Ai primi posti nell’emissione di CO2 pro capite ci sono i paesi produttori di petrolio: Qatar, Kuwait, Arabia Saudita. Seguono i Paesi più industrializzati: USA, Sud Corea, Germania. È chiaro che i Paesi produttori di petrolio e quelli più industrializzati, stando dalla stessa parte del grafico, hanno gli stessi interessi e, di conseguenza, prendono le stesse decisioni politiche.

Ma è anche evidente che sono troppi i politici succubi dei produttori di petrolio, anche nei Paesi più virtuosi: qualcuno per ignoranza o pavidità, molti, temo, perché semplicemente al soldo dei petrolieri. D’altronde, non è pensabile che Renzi sia l’unico caso al mondo.

di Cesare Pirozzi          

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