A tavola coi partigiani

“I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni simili, d’ossa rosicchiate e nascoste sottoterra”
Italo Calvino.

A più di 70 anni dal 25 aprile della Liberazione, in questi tempi in cui il cibo è diventato una moda ed è ancora vivo nella nostra memoria il ricordo dell’Expo per “nutrire il pianeta”, vale la pena tornare indietro nel tempo per vedere da dove veniamo. Vale la pena vedere quanto (poco) si mangiava nei giorni della Resistenza, quando si era “compagni” nel senso letterale della parola: compagno è chi mette il pane in comune.
Negli anni tragici della Seconda guerra mondiale le restrizioni alimentari obbligarono gli italiani ad economizzare su tutto. Il governo istituì il razionamento e le carte annonarie che garantivano un apporto calorico giornaliero insufficiente per vivere. “Se mangi troppo derubi la patria” era lo slogan di regime, ma la fame, la perdita di gesti concreti come cucinare, l’assenza di cibo erano il vero simbolo della devastazione materiale e morale dell’Italia, la misura del collasso del fascismo.

La fame è uno stato d’animo. La fame ti obbliga a pensare soltanto alla fame, a sopportare la fame. Non è come quando a un certo momento hai fame, mangi e ti passa; no, il desiderio di mangiare è inesauribile, ti assilla notte e giorno perché non sei mai sfamato abbastanza.

Nell’Italia spettrale e denutrita della guerra i partigiani nascosti in montagna mangiavano poco, di rado e in fretta per paura di essere scovati: riso stracotto, castagne, qualche patata bollita. Le loro prime risorse furono i magazzini dell’ormai disciolto Regio esercito italiano: sacchi di zucchero, sale, riso, farina, casse di surrogato, fusti di cognac e olio. Successivamente il problema dei viveri venne risolto in vari modi, e non sempre ortodossi. A volte la popolazione collaborava spontaneamente, a volte il cibo arrivava dall’alto: cadevano dal cielo dei grossi cilindri metallici pieni di armi, vestiti caldi, medicinali e cibo, ma si trattava di alimenti ai quali i partigiani non erano abituati. Nel libro “Partigiani a tavola” Lorena Carrara ed Elisabetta Salvini raccontano: “Dall’aria continuavano ad arrivare, sempre di notte, campioni di roba da mangiare molto esotica, una specie di manna moderna, più bella che buona. C’erano alcuni rotoli di uno strano prodotto composto principalmente di sale e qualche scatola di una pasta pallida e liscia che non sapeva di nulla ed era formaggio canadese. E c’era la polvere d’uovo. Questa non era affatto appetitosa, ma la prima volta che arrivò, mentre noi stavamo lì a guardare perplessi il pacchetto, Lelio e un ragazzo di Roana si fecero forza e si misero a mangiarsela con le mani. Lelio ne mangiò una manciatella e poi si fermò. Il ragazzo di Roana mangiò tutto il resto e ci bevve sopra una borraccia d’acqua perché aveva la bocca impastata, poi si sentì male. Gli altri si misero a fargli bere altra acqua per rianimarlo. Quando entrò in coma lessi cosa c’era scritto sul pacchetto: era una scritta in inglese, diceva “polvere ad altissima concentrazione-100 uova di gallina canadese-mescolata con l’acqua riacquista il suo volume naturale.” Alla fine avevamo vinto noi: il ragazzo di Roana si riprese, ma in seguito bastava dirgli “coccodè” per farlo svenire.”

L’atto di bere e di mangiare è legato indissolubilmente all’idea dell’esistenza. Leggere la storia a partire da cosa mangiamo è entrare nel vivo dell’esistere.  Guardare ai giorni della Resistenza attraverso il cibo può sembrare irriverente, ma permette di restituire un corpo a chi quella Resistenza l’ha fatta, a chi l’ha supportata, a chi ha compiuto ogni giorno -ad ogni passo- la scelta di donare quel cibo ai combattenti partigiani, di restituire al pane il senso di condivisione ed uguaglianza che aveva perso sotto la dittatura fascista.

di Daniela Baroncini

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