La caverna del mito e del profitto

Il rimanere intrappolati, lo sprofondare sottoterra ci appare oggi come una rappresentazione simbolica tremenda. Ci appare come la scena, anzi la mise en abyme, la messa in abisso inconscia della nostra inesorabile inumazione, del nostro inabissarci nella morte a ogni nuovo passo della vita. Per questo scatta un meccanismo empatico di universale identificazione. Dentro una grotta o la morsa claustrofobica di cunicolo – ci fosse anche una sola persona – vediamo l’intera umanità. Proprio il 13 giugno dello scorso mese è stato l’anniversario della morte di Alfredino Rampi dentro un pozzo artesiano nell’Agro Romano. Era il 1981, quando Alfredino, di appena sei anni, cadde in questo pozzo situato in Via di Vermicino, località Selvotta, vicino Frascati. Cadde e sprofondò giù fino a sessanta metri.

Attraverso un microfono calato in quella asfittica cavità si sentiva il grido informe, l’eco ululante della sua disperazione. Fu uno straziante evento umano, ma anche dirompentemente mediatico. Accorsero sul posto migliaia di persone, giornalisti, troupe televisive e radiofoniche. Si ricorda anche l’arrivo dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini che – attraverso quel microfono calato dalla superficie della vita verso la soglia dell’oltretomba – tentò di parlare con il bambino. Non ci fu niente da fare. Pur raggiunto da un pozzo scavato lateralmente, non si riuscì a tirare su il corpicino di Alfredo prima che spirasse l’ultimo respiro. La brulicante, folle umanità di sopra non è riuscita a entrare in contatto con il millenario, indisturbato formicolare di insetti, batteri e divinità ctonie, ancestrali di sotterra.

La cosa si è ripetuta – questa volta su scala planetaria – nella vicenda della grande grotta di Tham Luang in Thailandia, con i dodici giovanissimi calciatori e il suo allenatore rimastivi intrappolati dentro a seguito di un allagamento pluviale, monsonico che ha ostruito ogni possibile via di uscita. Tutto il mondo si è empaticamente identificato, immedesimato come se ogni persona fosse chiusa in quella grotta, e seguito fino allo spasimo, minuto per minuto, il trascorrere drammatico dei giorni, delle notti, delle ore. Alla domanda mozzafiato di superficie: “Riusciranno a venire fuori?”, corrisponde quella più autentica che sale dal sottosuolo inconscio di ognuno di noi: “Riuscirò a venire fuori dal buco nero fatale della mia morte?”.

È perché questa domanda, questa inconscia eco esistenziale è il vero nocciolo della questione – e non solo o non tanto la pur straziante sorte di una dozzina di persone – che sono stati inviati sul posto e accreditati 1300 giornalisti da tutto il mondo, con reportage, collegamenti, interviste, indiscrezioni, retroscena che hanno avvolto l’intero pianeta in una fitta coltre elettronica di comunicazione. Tanto più insondabile è il vero abisso dell’inquietudine umana, tanto più il caravanserraglio mediatico riesce a far battere all’unisono l’emozione di massa e ad amplificarla come un immane megafono che sale dalle nostre viscere.

Quanto è costato inviare là da tutto il mondo 1300 giornalisti? È quale è stato il ricavo in smercio pubblicitario associato a ogni nuovo spasmodico aggiornamento della notizia? La massa segue, ingoia, impingua acriticamente i loro profitti a ogni nuovo spasimo ritmato dal ben dosato clamore drammatico. Davvero una grotta dalle uova, dal profitto d’oro. Dovrebbero dargli le royalties a quell’imprudente quanto provvidenziale allenatore di giovani calciatori. Ogni giorno muoiono decine di bambini sui nostri mari, e di fame nelle zone più depredate, razziate del terzo e quarto mondo, ma non ci sono migliaia di giornalisti a seguirne le sorti.

Billy Wilder con il suo film L’asso nella manica, del 1961, dimostra che l’emotività accentuata, deformata artificiosamente dai media perde via via tutto il suo aspetto naturale e ancestrale, per essere ridotta a docile strumento inconscio al servizio del consumo. Basta sfogliare sui grandi quotidiani le cronache del giorno dopo il salvataggio dei ragazzi, per vedere piazzate a fianco pubblicità a pagina intera di prodotti alimentari, di fashion e beauty: ossia proprio ciò che più simbolicamente si oppone alla morte. Loro sanno sì come piegare il simbolico a merce per i loro profitti.

La verità è che esiste una profonda connessione tra nostra rappresentazione, ossia tra il nostro mito della caverna come antro funebre e la sua inevitabile sottomissione all’interesse economico. La caverna, infatti, è stata il primo rifugio, il primo tetto naturale dell’uomo. Nel mito della caverna di Platone l’uomo era al suo primo, non ultimo stadio di vita. Uno stadio meramente biologico, non ancora razionale, filosofico, ma proprio per questo non certo di morte. Inoltre l’antro sotterraneo, gli Inferi, l’Ade sono considerati sì come luoghi dove i morti sono soggiacenti alla grande ombra, separati dalla luce e dalla superficie, ma non annichiliti, cioè completamente dissipati, svaniti nel puro Nulla. Quello che noi continuiamo a chiamare con immutato termine, ossiamorte, non ha sempre corrisposto allo stesso significato, alla stessa rappresentazione simbolica e sensibilità empatica. La morte, intesa come ritorno a quel Nulla da cui proveniamo e siamo appena per un attimo accidentalmente balzati fuori, è una visione, una messa in abisso soltanto dell’Occidente. Tale rappresentazione non ha dunque nulla di naturale o addirittura di originario. Essa è, al contrario, la scaturigine artificiale di quel processo storico artificiale chiamato civiltà. Civiltà occidentale, in questo caso, ossia quella che si è imposta come dominante, diffondendosi, radicandosi capillarmente sull’intero pianeta.

E proprio l’artificio, l’arte, la tecnica, il fuoco donatoci da Prometeo è lo strumento che l’origine dell’Occidente ha elevato ad antidoto supremo contro la morte, ossia contro la sua particolare interpretazione della morte. E come noi dal Nulla proveniamo e a esso rapidamente con la morte torniamo, alla stessa stregua la tecnica è quel potere di creare, far scaturire, costruire dal nulla le cose, le situazioni, gli stati esistenziali, politici, sociali, poetici, ecc., e attraverso la demolizione, la distruzione, la guerra al nulla farle tornare. Il potere assume nella storia dell’Occidente il volto preponderante del denaro, dell’accumulazione economica, del profitto capitalistico come massimo strumento di creazione/annichilimento di ogni realtà da convocare o revocare all’esistenza

Inevitabilmente e immediatamente dunque, insieme al moto di generale identificazione empatica s’innesca anche quello del suo cinico sfruttamento economico. Ma se poi quell’impulso d’immedesimazione con i reclusi di un antro sotterraneo andasse anche oltre il sottosuolo tecnico, storico della civiltà? Ossia percepisse inconsciamente, ma irresistibilmente, il suo carattere di rappresentazione, ossia di messinscena, o in abisso artificiale? Se la vera posta in gioco fosse proprio la certezza che dal mito della caverna occidentale si può, davvero originariamente, uscire sempre illesi, perché non esiste proprio alcuna micidiale spelonca esistenziale? Non è una mera domanda ma l’oggetto di ricerca de La struttura originaria, la grande opera filosofica di Emanuele Severino, al centro quest’anno di un importante congresso internazionale di studi accademici, a sessant’anni della sua pubblicazione.

di Riccardo Tavani

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