Virus e civiltà

È la civiltà il problema non il virus. La metafora della civiltà in pandemia, infatti, è la guerra. Perché la nostra civiltà è innanzitutto guerra. Come il sole usa il suo mitologico carro per ascendere in cielo, così la civiltà usa quello della guerra per espandere il suo dominio e intriderne ogni interstizio fisico, mentale, biologico. E la guerra, il conflitto tra diversi assetti, schieramenti conflittuali umani non è che il simbolo di quella dell’intera storia umana contro la natura. Combattendo, uccidendo sé stesso, infatti, l’umano non fa che muovere guerra contro la natura in sé, dentro di sé. Ossia: la natura che egli stesso è. Per quanto l’umano si sia posto davanti la natura come un soggetto davanti a un oggetto, ossia staccato, contrapposto; e lo abbia fatto anche caratterizzandosi come Storia, ossia progressione, progresso, davanti all’immutabile ripetizione, ciclicità della natura da dominare; ecco, nonostante egli si sporga sempre più fuori della natura, purtuttavia ne rimane ancora ineluttabilmente interno.

È questa ineliminabile internità dell’umano alla natura, dunque, che conflittualmente è posta davanti, ossia oggettivamente contr-apposta, all’umano quale soggetto e storia. La civiltà, soprattutto quella occidentale, si configura come un immane apparato tecnico e volontà di potenza, ai fini di assoggettamento, dominio e sfruttamento di quella natura che costituisce e nutre le radici della sua stessa possibilità di vita, sviluppo e ulteriore storia. La contraddizione è massima. La peggiore nemica di questa civiltà è sé stessa. L’attacco pandemico del virus, nel suo essere volto – sebbene microscopico, invisibile – della natura, si trascina così dietro anche quella parte dell’umano che non sporge, ma rimane affondata ben dentro il sottosuolo anch’esso invisibile, anzi, volutamente non visto, ignorato da parte della coscienza, percezione umana di tutto ciò che esiste e resta inscindibilmente legato nella sua totalità.

Se a prevalere continuano a essere la metafora, la logica della guerra e i conseguenti comportamenti, provvedimenti bellici nei confronti dei virus pandemici, non si alimenterà che altra guerra dell’umano contro sé stesso. Vaccini e cure, infatti, non potranno che costituire solo quella che Primo Levi in un suo romanzo titolava e definiva tregua, una pausa tra una guerra e l’altra. Anche perché altre varianti dello stesso virus e una sterminata, ancora sconosciuta schiera di altre diverse specie è pronta a entrare in azione, una volta sperimentata la facilità di replicarsi e diffondersi proprio attraverso organismi e comportamenti umani.

Non con un armistizio fondato sulla forza, sulla soverchiante potenza tecnica di un vincitore su uno sconfitto si pone termine alla guerra intestina, interiore tra natura e storia. Lo si può fare, invece, solo con un trattato di alleanza permanente anche tra quei due diversi aspetti dell’umano. Tale atto, però, non può avvenire che attraverso proprio un cruciale passaggio di civiltà, ossia attraverso l’apertura a un’epoca di giustizia e rispetto per ogni aspetto dell’essere, come espressione intangibile della totalità esistente.

di Riccardo Tavani

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