Amo il Baobab
Amo il Baobab. Si amo il centro di accoglienza di piazzale Maslax a Roma, in zona S. Lorenzo-Tiburtina. Un centro che accoglie, cura, dona dignità e amore a centinaia di migranti, donne, bambini e uomini che fuggono da fame e guerre. Centinaia di persone, nostri “sorelli” scappati alla persecuzione politica nei paesi di origine, che non hanno più una patria, non hanno più un luogo dove andare. Non hanno più un affetto da accarezzare o come i bambini, non hanno più una mamma da cui farsi coccolare.
Il Baobab è tutto questo e altro ancore. Il Baobab è le decine di volontari che da tutta Italia convergono a Roma per impegnarsi in prima persona, per tendere le mani, per donare e condividere quel poco o tanto che hanno. Così tra le tende ci sono ragazze giovani, persone anziane, donne di età avanzata che ricordano le bombe su S. Lorenzo, che hanno combattuto contro il fascismo e il nazismo. Ora sono lì, tra i migranti che nessuno vuole, che tutti scacciano. Sono lì i volontari, dalla mattina presto fino a sera tardi, a cercare di far ma giare tutti quelli che si presentano, spesso è difficile, i viveri non bastano, allora bisogna fare le razioni più piccole, ancora più piccole, che si ha ancora fame. Ma si divide, il pranzo come la cena. Si divide in tante parti quanti sono le bocche da sfamare. Alle donne con i bambini piccoli la razione è leggermente più abbondante, agli adulti viene ridotta, agli anziani si cerca di dare quanto basta. Tutti i giorni è così. Tutti i giorni, con amore si condivide la fame al Baobab e tutti i giorni si mangia qualcosa.
Al Baobab tutti i giorni si mangia qualcosa, ed è un qualcosa sufficiente a farti sentire accettato, parte integrante di una comunità che accoglie con il sorriso e accetta di donare la parte più bella di se stessi. Amo il mio prossimo che sono io, cioè mio fratello “sorello” d’Africa che oggi mangia con me quel poco che ho portato. Il pane dell’amore è buono oggi, come lo era ieri e come lo sarà domani. Il pane condiviso, spezzato con le mani è il pane di Dio, il Dio dei cristiani, ma anche dei mussulmani, cosi dei buddhisti o atei. Il pane spezzato con le mani è il pane che supera e unisce le religioni, annulla le discriminazioni, ci rende uguali e liberi. Il Baobab è la libertà dei “sorelli” che fuggono e finalmente trovano pace. Il Baobab è il segno della pace rappresentano dalle mani che si stringono in chiesa la domenica, o dalla colomba bianca che vola nel cielo azzurro, o dall’arcobaleno che sventola sulle bandiere appese alle finestre e ai balconi. Ora il Baobab non c’è più. Salvini, il ministro leghista che governa con la benedizione del pentastellato Di Maio, ha inviato le ruspe, le camionette, i blindati, per radere al suolo questo simbolo di pace e “sorellanza”.
È la ventiduesima volta che il Baobab viene raso al suolo, al grido fascista di “riprendiamoci i luoghi occupati” ma non si può abbattere un sogno, nessuna ruspa o blindato può estirpare l’amore che doniamo. Nessun Salvini può arginare un fiume in piena di solidarietà e accoglienza. Il Baobab siamo noi, sorelli di tutti i noi che popolano la terra in condizioni di povertà. Il Baobab rinasce dalle sue ceneri come una araba fenice, ogni volta che viene abbattuta e nella resurrezione vola sempre più in alto fino al settimo cielo dove cantano i bambini morti sotto le bombe, o di fame, o annegati nel canale di Sicilia.
I bambini che le mamme prima di partire per traversare il mare, vestono di rosso con la speranza che i soccorritori li ripeschino per primi. Lì, al settimo cielo, ci sono anche le mamme che hanno dato la precedenza alla vita ai loro figli, che sono figli nostri, figli di noi “sorelli” che da quaggiù, cantiamo con loro. Lì, nel settimo cielo dell’amore, i pasti sono abbondanti, ma le mamme, abituate a non mangiare per far mangiare i loro figli, non mangiano, cosicché i piatti dei bambini con le magliette rosse sono stracolmi e loro, ancora bagnati e con la salsedine tra i capelli, cantano di gioia. Quaggiù, in piazza Maslax, tra S. Lorenzo e Tiburtino, la loro voce giunge tra il respiro del vento e le foglie dei platani che cadono, avvolte dal giallo umido dei lampioni.
di Claudio Caldarelli