Edith Bruck, incanta scolaresche di adolescenti. Guardate quegli occhi: ecco perché l’odio non trionferà.

Edith Bruck ha un bel volto, segnato dal tempo e dal dolore, dai ricordi di una vita sottratta. E’ una scrittrice e una poetessa, forse perché talvolta le parole scritte hanno la necessità di prendere il sopravvento su quelle pronunciate. Quando sentire la propria voce raccontare le atrocità vissute, diventa violenza e tortura per la seconda volta. Allora si scrive, nel silenzio, mentre riaffiorano emozioni, sensazioni, privazioni, lacrime, perdite e terrore.
Ebbene questa meravigliosa donna di 88 anni, ungherese, deportata a dodici anni, è una sopravvissuta ai lager nazisti, una dei pochi ancora viventi in Italia. Ha una voce calma mentre ricorda delle finestre del suo piccolo paese natale sbarrate davanti al corteo degli ebrei avviati ai treni, e della selezione, all’arrivo ad Auschwitz: quando lei si avvinghiò a sua madre con le unghie, e ne fu strappata. Miracolosamente scampata, si stabilì nel nostro Paese. Ma, ripete pacata, in quell’Italia degli anni Cinquanta «nessuno voleva sapere».
Non volevano sapere gli italiani, subito uniformati a nuove condizioni di vita, della realtà, stupiti dal primo tepore di una pace ritrovata, del cibo abbondante, delle canzoni orecchiabili dei primi festival di Sanremo.
Non volevano sentire di quegli orrori proprio allora, quando la vita stava ricominciando in tutto il suo splendore.
E forse pesava, in fondo ai cuori di alcuni, il rimorso di non aver visto o capito, oppure di aver capito e aver taciuto.
Nemmeno gli ebrei sfuggiti alla deportazione, afferma Bruck, volevano sentire i racconti dei fratelli: troppo erano strazianti, atroci, penosi e orribili.
E dunque in quell’Italia degli anni Cinquanta, operosa, produttiva, prolifica e rinnovata, c’era come un vuoto colmo di silenzio: nessuno voleva sapere.
Settantacinque anni dopo la liberazione del campo di Auschwitz, l’anziana signora racconta la sua storia a delle scolaresche di ragazzini fra gli 11 e i 13 anni. In quell’età di passaggio in cui molti hanno ancora una limpidezza infantile, ma già il principio di una maturità da adulti. Straordinaria età, oggi così calpestata dal mercato, dai social, dalla volgarità, dal nulla che lesina il futuro, i sogni, le aspettative cui questi giovani hanno diritto.
Eppure, incredibilmente, questi ragazzi ascoltano con interesse. Basta vedere i loro volti, i loro occhi così attenti, concentrati, protesi ad immaginare ciò che viene loro raccontato dalla Bruck. Qualcuno corruga la fronte, pensa, riflette e considera che certe domande sono troppo grandi per poter dare delle risposte.
Sono pagine di storia che forse loro non hanno mai letto né sentito raccontare, ma quello che comprendono, è che stanno ascoltando vicende assolutamente feroci, crudeli, strazianti, spietate e disumane.
Non uno che bisbigli, o guardi altrove. È la prova di come ancora la memoria viva si trasmetta, da cuore a cuore, tanti anni dopo. È la prova, in quegli occhi di ragazzi, di come il cuore dell’uomo nel suo fondo non cambi e sia sempre aperto ad accogliere anche il bene. Basta che un volto vero glielo testimoni.
Ma allora «nessuno voleva sapere niente», della Shoah, dell’Olocausto appena consumato. Oggi, pure nel vento di un antisemitismo e razzismo che rialza arrogante la testa, oggi le nuove generazioni sono disposte a sapere. Forse perché del tutto innocenti dei peccati collettivi del Novecento, forse proprio perché vergini di ogni ideologia, i figli dei figli sono disposti ad ascoltare ciò che è stato. E non c’è museo o dotta lezione che valga quanto la faccia di una sopravvissuta, su cui il dolore ha tracciato, ben leggibile, una fine tela di rughe. In nessuna, però, c’è traccia di odio o vendetta.
«L’odio è veleno, ragazzi – dice –, non odiate nessuno».
Dopo questi incontri, afferma Bruck, riceve molte lettere, bellissime, commoventi. Quei figli colti nell’attimo in bilico fra l’infanzia e l’adolescenza possono trattenere certe parole, come la terra buona accoglie i semi.
Chi non ci crede vada a guardare con quali occhi ascoltano la signora Edith, 88 anni, strappata bambina alla madre cui si aggrappava ad Auschwitz.
Sono occhi assetati di sapere perché loro ne sono certi, come lo si può essere tra gli 11 e i 13 anni di età.
Ebbene loro hanno la convinzione, la sicurezza, il convincimento e la persuasione che prima o poi l’odio verrà sconfitto, annientato e distrutto.
Sarà davvero così? In fondo basta guardarsi intorno per rendersi conto che stiamo vivendo in un mondo non sicuro, in cui tutto è incerto e il pericolo può arrivare da ogni parte. Viviamo in una società piena di timori, apprensione, inquietudine, sospetti. E si sa, spesso la paura genera odio.
Allora vorrei tanto dar fiducia alle certezze di questi ragazzini tra gli 11 e i 13 anni, perché noi, abbiamo perso anche quello: il coraggio di crederci.

di Stefania Lastoria

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