Il lavoro uccide ancora e ancora

Mario Guido faloci

Non ci sono vaccini per le “morti bianche”            

Quando lo scorso 3 maggio in un incidente sul lavoro Luana D’Orazio, 22 anni, è morta schiacciata dal macchinario con cui stava lavorando, l’Italia ha riscoperto che non si muore solo di virus. Lo scorso anno ben 1270 lavoratori non hanno fatto ritorno alla loro casa, in un quadro fortemente influenzato dalla pandemia: nel 2020 il lungo fermo delle attività non essenziali ha ridotto gli incidenti più tradizionali, ma l’aumento del 775% (!) di morti tra il personale sanitario, ha portato ad un complessivo +16,6%, rispetto al 2019. Eppure, di come questa piaga sia ancora in crescita nel nostro paese, ce se ne accorge solo ora: in mezzo alle discussioni sui vaccini, alle attività ancora chiuse, alla caduta del governo, ai piani di recupero economico, in pochi si sono accorti che nei primi tre mesi del nuovo anno, le morti sul lavoro erano aumentate ancora rispetto allo stesso periodo del 2020: in totale 19 decessi in più (ma, ciò che è più grave che sono ben 40 in più, “in occasione di lavoro”). La morte della giovane e bella operaia, con la mediatica diffusione delle sue fotografie sui social, ha strappato il velo di silenzio che normalmente nasconde le cosiddette morti bianche ed ha ricordato al paese che in Italia si muore anche di altro, che non sia il Covid. Ma, se nei giorni successivi faceva ancora scalpore la cronaca di altri lavoratori uccisi dal loro lavoro (oltre a Luana,  Christian Martinelli a Busto Arsizio; Andrea Recchia a Sorbolo e altri ancora), è molto probabile che una volta finita la campagna di solidarietà per il piccolo figlio di Luana, il tema degli incidenti mortali sul lavoro tornerà ad essere trattata in modo secondario. Anche se, pur quando i morti siano meno giovani, meno belli, mediaticamente meno interessanti, l’esito degli incidenti non è meno tragico.

Il problema è che non siamo capaci d’indignarci come dovremmo, non siamo mai abbastanza arrabbiati da protestare come servirebbe, per questo virus del mondo produttivo, che è il mancato rispetto delle norme di sicurezza: basti pensare che neppure per le morti della Tyssen-Krups si è fermato il paese… Eppure, nei primi tre mesi dell’anno sono già morte 185 persone (più di due al giorno); eppure ancora avviene che nelle aziende s’intervenga sulle misure di sicurezza per alzare la produttività; eppure ancora ci sono lavoratori che preferiscano il rischio di perdere la vita a quello di perdere il lavoro. Forse, nelle pieghe della rigoristica riduzione della spesa nella Pubblica Amministrazione, sono andati perduti molti di quei controlli che avrebbero potuto salvare delle vite: le ispezioni serie, “a sorpresa”, senza alcuna denuncia preventiva, sono una vera rarità. Probabilmente le formazioni sulla sicurezza impartite sui posti di lavoro, sono troppo piene di tecnicismi (anche giuridici), per essere comprensibili ai più e valide anche a livello pratico: forse non è la cosa più utile, insegnare ad un manovale come ovviare ai problemi di postura errata, nel lavoro al videoterminale. Sicuramente la perdita della capacità dei lavoratori di “fare muro” anche contro le scelte pericolose, ci ha praticamente fatto perdere il diritto all’autotutela: ormai è raro che ci si muova all’unisono per protestare. Ma se pure possiamo paragonare le morti bianche ad un virus del mondo produttivo, non avendo nessun corrispettivo del vaccino, quale plausibile soluzione ai suoi danni, allora per difendercene noi tutti non abbiamo che le precauzioni, le cautele e le segnalazioni all’autorità. Ed è bene che, come per le mascherine ben calzate, non si abbassi mai la nostra soglia di attenzione. Altrimenti, continueremo ogni giorno a tenere il conto di quanti non torneranno a casa, magari commuovendoci o indignandoci, quando la morte coglierà un’altra persona giovane e bella, ma comunque solo un essere umano che pensava di lavorare per vivere. E faremo tutto questo con un misto di fatalità e paura, sperando che non tocchi mai a noi.

di Mario Guido Faloci

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