Le mutilazioni genitali, il Papa: una pratica che umilia la donna
Le Mutilazioni Genitali Femminili (MGF) riguardano tutti quei procedimenti che coinvolgono la rimozione, totale o parziale, degli organi genitali femminili esterni, pratica che non viene applicata per scopi di natura medica, bensì per motivi culturali. Sono numerose le complicazioni, a breve e lungo termine, sulla salute di coloro che sono soggette a questa usanza. Tra le peggiori, vi è la morte. Sebbene le MGF siano riconosciute a livello internazionale come una violazione estrema dei diritti e dell’integrità delle donne e delle ragazze, si stima che circa 68 milioni di ragazze in tutto il mondo rischiano di subire questa pratica prima del 2030.
Nel 2012, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la risoluzione 67/146, proclamando il 6 febbraio come la Giornata Internazionale contro le Mutilazioni Genitali Femminili.
Quest’anno, nella ricorrenza internazionale del 6 febbraio indetta dall’Onu, il Pontefice ricorda come questa pratica attenta gravemente non solo al fisico ma alla dignità stessa della donna.
“Sono circa tre milioni le ragazze – ha detto Francesco – che ogni anno, subiscono tale intervento, spesso in condizioni igieniche pericolose per la loro salute. Una violazione estrema dei diritti e dell’integrità delle donne e delle ragazze. Nella maggior parte dei Paesi del mondo le mutilazioni genitali femminili sono considerate una pratica da abolire, frutto di usanze culturali barbare, con conseguenze importanti sulla salute della donna, che in alcuni casi portano alla morte. Una volta praticato il taglio le ragazze saranno considerate pronte per diventare spose e questo comporta spesso un matrimonio precoce con il conseguente abbandono degli studi”.
A pesare in questo dato c’è la pandemia che ha stravolto i piani di molte organizzazioni, costrette a mettere da parte i progetti per affrontare l’emergenza sanitaria. Una crisi nella crisi.
Le mutilazioni genitali femminili sono diffuse principalmente in 31 Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, 15 dei quali alle prese con conflitti, povertà crescente e diseguaglianze, ma è corretto definire questa pratica universale perché comune in alcuni Paesi dell’America Latina e dell’Asia. Non sono da escludere, inoltre, l’Europa occidentale, l’America del Nord, l’Australia e la Nuova Zelanda dove le famiglie immigrate continuano a rispettare questa tradizione.
In alcuni paesi si tratta di una pratica subita da circa il 90% delle ragazze, in particolare in Gibuti, Guinea, Mali e Somalia. Allarmante sta diventando l’età delle donne, sempre più bassa così ad esempio in Kenia, l’età media in cui ci si sottopone alla pratica è scesa dai 12 ai 9 anni negli ultimi tre decenni.
E proprio dal Kenia arriva la testimonianza di monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata e vescovo di Maralal, diocesi con circa 100 mila cattolici su 350 mila abitanti.
Da lui arriva una testimonianza di chi, in quei posti ci vive:
“Io lavoro con delle tribù nomadi e seminomadi, quelle dei Samburu, dei Turkana, dei Pokot, gente che vive tra le capre, i cammelli e le vacche. Tra i Samburu e i Turkana c’è una grande differenza: i Turkana non circoncidono, né i maschi né le femmine, invece i Samburu, come i Masai, con i quali sono imparentati, praticano la circoncisione sia dei maschi, che delle femmine. Adesso il governo del Kenya ha proibito la circoncisione femminile, è proibitissimo, si finisce anche in prigione, però sappiamo che il 99% delle persone continua a farlo di nascosto, perché si dice che se una donna non è circoncisa non è pronta al matrimonio e le ragazze accettano altrimenti nessuno le sposa. C’è naturalmente differenza tra le città, tra chi vive nei centri, dove ci sono le scuole, e la realtà fuori, nella savana, dove si continua come prima. Nei centri, le persone vanno a scuola, la nuova generazione è cambiata e ora quelli che hanno studiato la rifiutano. Le coppie che hanno studiato e che hanno un lavoro, che stanno bene economicamente, non circoncidono le loro figlie. Fanno una cerimonia e un piccolo taglietto sulla coscia per versare un po’ di sangue. Bisogna anche sapere che la circoncisione femminile non è come quella maschile, non è solo un fatto fisico, c’è anche una iniziazione, una preparazione alla vita adulta matrimoniale”.
Dopo un sospiro continua: “Anche io mi chiedo come si possa agire su queste tribù affinché possano abbandonare queste barbare tradizioni. Credo che più che parlarne, bisognerebbe investire nella scuola ed educare queste ragazze. In questo senso abbiamo scuole primarie e secondarie nella nostra diocesi, siamo all’avanguardia nell’educare le donne perché solo con l’educazione la cosa decade da sola, senza fare battaglie. Ecco noi facciamo un lavoro indiretto in quanto la questione deve maturare un po’ alla volta, l’educazione, l’istruzione sono la strada migliore. E così sembra assurdo ma ci sono casi, ad esempio presso i Samburu, di ragazze che non possono avere figli se non sono circoncise, le fanno abortire perché una donna che non è circoncisa non è considerata pronta a fare figli. Difficile agire su queste antiche credenze e tradizioni.
Invece con la nostra azione educativa stiamo vedendo dei veri cambiamenti. Io per esempio ho parlato adesso con una famiglia giovane, con una donna che diceva: “Io sono circoncisa perché ai miei tempi si faceva così, ma non voglio che nessuna delle mie figlie venga circoncisa. Farò una battaglia per le mie figlie”. E’ una donna che ha studiato nelle nostre scuole e già si vede un cambiamento di mentalità, ecco perché le cose stanno cambiando un po’ alla volta. Ci sono dei risultati positivi. Forse sarà solo un piccolo passo, ma se tutti come noi facessero lo stesso piccolo passo, saremmo già a metà del percorso. Basta crederci e lottare per ciò in cui si crede, seminare nuovi modi di pensare, uno spirito critico. Come dicevo occorre educare, istruire, far leva sulla cultura e la conoscenza.
E’ così e con l’amore che si salvano le vite, è così che si possono abbattere antiche e pur sempre attuali barbarie come quella di cui stiamo parlando.
di Stefania Lastoria