Nella nebbia della battaglia ti posterò il mio tragico cuore

C’è un aspetto dei veti su argomenti russi e allontanamento di artisti russi di questi giorni che non deve sfuggire. Vediamo il divieto emanato dalla Università Bicocca di Milano nei confronti di un ciclo seminariale che il prof Paolo Nori doveva tenere sullo scrittore ottocentesco russo Fëdor Dostoevskji. Il divieto è stato comunicato al docente via mail, mentre si poteva e si doveva chiamarlo e discuterne direttamente con lui a voce. La marcia indietro innestata poi dall’Ateneo – con motivazione addirittura peggiore del divieto stesso – avviene a seguito dell’impatto di un intervento di Paolo Nori tramite video social, divenuto virale.

Beppe Sala, quale sindaco di Milano e presidente della Fondazione Teatro alla Scala, motiva le ragioni dell’allontanamento del direttore d’orchestra russo Gergiev, via Facebook. Se tali atti in sé ribadiscono – ove ce ne fosse ancora bisogno – che abbiamo indossato l’elmetto contro la Russia, la loro modalità ci dice che stiamo partecipando alla guerra, sparando pallottole di post, commenti, condivisioni e like anche in modalità social.

Lo fanno la Scala, il Comune, l’Università di Milano e diverse altre istituzioni e loro rappresentanti. Lo facciamo quasi tutti noi. È il lato civile di ciò che avviene su quello militare, fin dalle primissime ore di questa guerra. I sincronici movimenti delle truppe russe e delle colonne di fuggiaschi subito su Google Maps, via geolocalizzazioni dei cellulari, l’individuazione di soldati tramite profili social, le dirette video, postate da migliaia di ukraini su Instagram, Reddit, Tik tok, YouTube, delle centinaia di punti di combattimento, bombardamenti, crolli, fughe, drammatiche tanche de vie, scene di vita squarciate dallo strazio e dalla disperazione. Uno smog, un’unica coltre nebbiosa che avvolge cittadini e soldati amici e nemici, che supera in maniera incommensurabile le stesse capacità di controllo delle istituzioni civili e militari. Dentro questa nebbia – così è stata tecnicamente definita – è possibile inserire post, foto, video, tracce audio di altri momenti, situazioni, contesti. Ossia è possibile riposizionarli, rinnestarli dentro la percezione come presente in atto, perché l’immateriale elettronico virtuale permea ormai a tal punto il reale materiale, da saturarlo, strutturalo e riconfigurarlo come propria modalità operativa. E tale inedita configurazione scardina la stessa concezione umana del tragico, dislocandola dentro un nuovo indistricabile continuum percettivo.

Acheraggio, trollaggio, stalcheraggio, profilazione di massa per ottimizzare al grado più alto di precisione vere e proprie campagne di mobilitazione bellico-ideologiche, tramite news e fake, radiose rassicurazioni e paure archetipico-ancestrali, configurano ormai un’unica sfera indistinguibilmente civico-militare. Una social global war ball, una bolla planetaria bellico-sociale, dentro la quale siamo tutti connessi e sospesi. Dagli apparati segreti di Stato, ai detentori delle maggiori piattaforme social-mediatiche, ai circa tre miliardi di persone che – illudendosi di utilizzarle – ne vengono in realtà utilizzati.

Scrive Lonardo V. Distaso dell’Università di Napoli “Federico II” sulla sua pagina Facebook: “E adesso finalmente, dopo che per due lunghi anni siamo stati tutti esperti di virologia, epidemiologia e infettivologia, ora finalmente possiamo diventare in men che non si dica esperti di politica estera, di politica militare, di strategia e soprattutto storici di professione! Era ora che cambiassimo specializzazione e competenze!”.

In verità non siamo solo alla fulminante definizione di Umberto Eco “La parola con i social a legioni di imbecilli”, ma a imbelli legionari in senso proprio. Essi, infatti, partecipano attivamente alla guerra, data la rilevanza concreta e non solo virtuale che i social hanno ormai sul piano tattico e strategico delle guerre contemporanee. D’altronde se pensiamo che il compagno camerata democratico Zuck trasporti i nostri post da un punto all’altro del pianeta solo per liberalità informativa e non per profilarci e vendere, ricavare profitti da ogni singola nostra pagina, allora – se come insistono a dire – Putin è un pazzo, noi tutti lo siamo molto più di lui.

Una volta, infatti, si diceva che la guerra era per il capitalismo un’occasione irripetibile per massimizzare i profitti. Oggi ancora di più, vendendo al più grande cliente solvente sul mercato – ossia lo Stato con le nostre tasse – merci ad altissima concentrazione economico-tecnologica quali sono i sempre più sofisticati sistemi d’armamento bellico-informatico, come carri armati, aerei, droni, missili, ecc. La stessa massimizzazione di profitti la guerra la garantisce ancora di più alle piattaforme social. Anzi, con l’avvento già in atto del Metaverso, saremo noi stessi a essere inseriti, oltre le nostre tasse e i ricavi pubblicitari, dentro il motore degli algoritmi di progressiva ottimizzazione profittuale capitalistica.

Per questo i social media hanno tutto l’interesse – nel vero senso della parola – ad aumentare il numero di imbelli legionari tuttologi che partecipano – bendati nella nebbia – alla social war. E più vere che mai risulterà nel tragico continuum reale-virtuale lo sferzante canto di Fabrizio De André: “Per quanto voi vi crediate assolti/ Siete per sempre coinvolti”.

di Riccardo Tavani