Irène Némirovsky, ecco il preludio della “Suite francese”

Esce “Tempesta in giugno”, la prima parte di quello che sarebbe dovuto diventare il capolavoro, incompiuto a causa della deportazione, della scrittrice nata Kiev nel 1903 e morta ad Auschwitz nel 1942.

«Irène Némirovsky» ha scritto Pietro Citati «possedeva i doni del grande romanziere, come se Tolstoj, Dostoevskij, Balzac, Flaubert, Turgenev le fossero accanto e le guidassero la mano». Per tutti coloro che dal 2005 (anno della pubblicazione di Suite francese in Italia) hanno scoperto, e amato le sue opere, questo libro sarà una sorpresa e un dono: perché potranno finalmente leggere la «seconda versione» – dattiloscritta dal marito, corretta a mano da lei e contenente quattro capitoli nuovi e molti altri profondamente rimaneggiati – del primo dei cinque movimenti di quella grande sinfonia, rimasta incompiuta, a cui stava lavorando nel luglio del 1942, quando fu arrestata, per poi essere deportata ad Auschwitz.

Una versione inedita e differente da quella, manoscritta, che le due figlie bambine si trascinarono dietro nella loro fuga attraverso la Francia occupata, e che molti anni dopo una delle due, Denise, avrebbe devotamente decifrato. Qui, nel narrare l’esodo caotico del giugno 1940 e le vicende dei tanti personaggi di cui traccia il destino nel suo ambizioso affresco – piccoli e grandi borghesi, cortigiane di alto bordo, madri egoiste o eroiche, intellettuali vanesi, uomini politici, contadini, soldati –, Némirovsky elimina tutte le fioriture, asciuga e compatta. Non solo: ricorrendo alla tecnica del montaggio cinematografico, limitandosi a «dipingere, descrivere», sopprimendo ogni riflessione e ogni giudizio, conferisce a questo allegro con brio un ritmo più sostenuto – e riesce a trattare la «lava incandescente» che ne costituisce la materia con una pungente, amara comicità.

Ma di cosa tratta questo testo incompiuto?

L’esercito tedesco sta invadendo la Francia. Al primo soffio delle sirene che annunciano i bombardamenti, le luci di Parigi vacillano e si spengono, «come candele al vento»: dopodiché il cielo si satura «di clamori». Così comincia Tempesta in giugno di Irène Némirovsky: gli abitanti della città vengono sorpresi nel sonno, ognuno affaccendato dentro il suo sogno, poco importa si tratti del mare «che spinge davanti a sé i ciottoli e le onde» o d’«una mandria di buoi che galoppa pesante facendo tremare il suolo con gli zoccoli».

Una tragedia immane, insomma, comincia a consumarsi, ma il cielo pare rimanere indifferente, sigillato nella sua imperturbata bellezza: «Fuori, sotto quel cielo soave e trasparente, ogni casa era visibile, ogni tetto luccicava, ogni strada spiccava, azzurrina, tra i marciapiedi argentei rischiarati dalle stelle. Si distingueva persino l’effuso candore degli ippocastani in fiore».

E ancora: «La primavera, con le sue notti luminose, si faceva beffe della prudenza umana. Mentre la Senna pareva concentrare su di sé ogni sparso chiarore, catturarlo e farlo danzare nei suoi flutti. Dall’alto doveva sembrare un fiume di latte». Quanto alta e solenne è questa notte, sideralmente lontana in se stessa, tanto è ingloriosa l’epopea di quest’umanità ansiosa e formicolante che sotto il suo cielo si va consumando.

Esule ucraina a Parigi, Némirovsky avrebbe a disposizione per restituirci questo suo affresco di drammatica storia contemporanea il modello sommo di Tolstoj e invece, anche sulla scorta della lettura appassionata di Aspetti del romanzo (1927) di E.M. Forster, non può non guardare alla tecnica dell’impersonalità flaubertiana e al Thackeray di La fiera della vanità (1848).

Che altro è, in fondo, questo Tempesta in giugno, se non una nuova declinazione di quella fiera all’altezza dei tempi drammatici e feroci di un’Europa affacciata sugli abissi dell’Olocausto?

La capacità di penetrazione psicologica di Némirovsky, la sua ironica attenzione al sistema delle relazioni tra i personaggi, soprattutto quelle familiari, sono universalmente celebrati.

Pur tuttavia, le novità sono più importanti, sino ad arrivare ad una “rottura radicale” col suo passato, provocata – come del resto avviene a molti altri scrittori della sua generazione – da quelle nuove domande «su come rappresentare la guerra e la disfatta»: l’architettura si fa più complessa, la tecnica del montaggio cinematografico comincia ad avanzare i suoi diritti, i personaggi rivendicano il loro punto di vista, il comico irrompe.

Tutti fattori che acuiscono ancor più la nostalgia per tutto ciò che non è stato.

E come sempre Irène Némirovsky con la sua scrittura coinvolgente ci conduce nel nero e profondo cuore della terra, dove il male incombe sempre come una realtà inevitabile. 

di Stefania Lastoria

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