L’ossessione della “roba”

Una umanità arida, senza sentimenti, senza amore, che sacrifica tutto sull’altare della “roba”. Una umanità contemporanea, senza scrupoli, senza carità, che uccide e fa uccidere i suoi simili, solo per possedere ricchezza senza fine. I signori della guerra che non si impietosiscono difronte alle madri che vedono i loro figli morire di fame. I ricchi come “maiali” che lasciano morire di fame i bambini. Sono tutti Mazzarò. Sono tutti avidi di “roba” da sacrificare la loro vita affettiva è quella delle persone che gli sono accanto.

“La roba” in scena al teatro Quirino di Roma per la regia di Guglielmo Ferro, con la straordinaria interpretazione di Enrico Guarneri, un ottimo Mazzarò. Talmente nei suoi panni da esserne intriso fino al midollo. Un monologo sapientemente orchestrato, che, come dice la mia amica Michela, tutto gli ruota intorno. Dalla scenografia, ben attrezzata con al centro del palcoscenico un ulivo secolare, alle ceste di vimini di diverse grandezze, come la fatica delle donne che le trasportano. Tutto gira intorno al monologo, tutto si interseca in modo talmente vero da trasmettere la sensazione di esserci su quei campi a raccogliere le olive.

Una compagnia di attrici e attori che vestono bene le loro parti, dalle più disperate alle più sottomesse. Un esercito di vinti. Schiavi del loro essere schiavi di uno schiavo che si è arricchito, trasformando la sua ricchezza in ossessione per “la roba”.

Una condizione a cui nessuno si ribella e a cui tutti soccombono. I vinti. Vinti senza nessuna ricerca di rompere le catene a cui sono legati e si sono legati. Non c’è nessun intervento divino, la divina provvidenza di manzoniana memoria, non interviene per alleviare le sofferenze della povera gente che invano prega.

Il verismo di Verga, emerge con tutta la sua concettualità che indirizza il pubblico, a leggere tra le parole ossessionate di Mazzarò, tutta la sua incapacità di ribellarsi ad un mondo che schiavizza e mercifica l’anima e in cuore. Non c’è amore. Non c’è affetto. Non c’è empatia in una realtà fatta a brandelli come gli indumenti indossati a rappresentare il fango da dove non si vuole uscire.

La rappresentazione oggettiva della realtà, dove i fatti avvengono e sono scritti in modo impersonale, come una fotografia del mondo esterno di cui l’umanità fa parte. Non c’è miglioramento sociale, tutti senza alcuna speranza, tutti vinti da se stessi, importante per Verga e per il regista Ferro, è la teoria del darwinismo sociale, viene negata ogni felicità, presente e futura.

“La roba”, un mondo dove i veri possedimenti non sono l’affetto o l’amore verso il prossimo, ma la ricchezza materiale, quella che viene misurata a livello economico, in base alla quantità di terre (o armi) animali e fattorie possedute.

Gli spettatori si trovano difronte un mondo brutale, quello sul palcoscenico, simile a quello attuale, dove il brutale carattere di Mazzarò, è il carattere brutale dei governi, delle banche, delle multinazionali, tutte protese, con avidità, ad aumentare “la roba” posseduta. Niente e nessuno le può fermare. Nessuno può fermare le banche e i governi che affamano il genere umano. Lo stesso genere umano che continua a prostrarsi ai loro piedi in segno di riverenze. Non c’è nessuna speranza. È la sconfitta dell’amore. È la sconfitta della solidarietà. È la sconfitta di vivere. Ma il regista Ferro, nell’ultima battuta, fa esprimere a tutti i “miserabili” schiavi di Mazzarò, un rifiuto di obbedire ad un comando. Un gesto di ribellione sociale collettiva, così ben inserita nel finale, da rompere lo schema verghiano per approdare ad un livello superiore: l’emancipazione delle classi subalterne. La presa di coscienza che il valore della vita e della libertà e superiore alla “roba”.

 Claudio Caldarelli

 

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