Il vizietto delle manovre a debito

Per i governi italiani il vizietto più diffuso è aumentare il debito pubblico. Con la consueta ipocrisia della politica, questo vezzo viene di volta in volta presentato come una ribellione alle politiche di austerity o come una sfida alle regole comunitarie, ma comunque come un atto a difesa dei cittadini o, come oggi si usa dire, della Nazione, che suona più importante.

Si sostiene anche, da parte di politici un po’ cialtroni (che forse sono la gran parte, come pensano tutti quelli che non vanno più a votare), che le regole di bilancio concordate in Europa siano dannose alla crescita economica del Paese (pardon, Nazione).

In realtà si dimentica che i vincoli di bilancio sono prima di tutto imposti dalla nostra carta costituzionale (articoli 81 e 119), alla quale d’altronde tutti i governi giurano fedeltà.

Giuramento di politico, promessa di marinaio, si potrebbe dire, ma temo che i marinai siano più fedeli alla parola data.

E si dimentica che proprio gli interessi che paghiamo su quel debito impediscono di mettere le risorse necessarie sulla sanità, sulla scuola, sulla transizione energetica, sulla ricerca, sulla giustizia e via dicendo, e costituiscono – quelli sì – un freno allo sviluppo economico. Abbiamo pagato 83 miliardi di interessi nel 2022 (ultimo calcolo ufficiale degli interessi annuali) e ne pagheremo oltre 100 nel 2024, con i 14 miliardi in più previsti dal governo (ottimisticamente, perché saranno di più, secondo calcoli più realistici). Quante risorse restano per la manovra economica? E con tanti interessi da pagare, come si può far calare la pressione fiscale?

A onor del vero, alcuni governi sono riusciti a frenare l’indebitamento, ma sono stati una minoranza e per brevi periodi. Per esempio, il governo Draghi lo ha fatto, riducendo il debito del 10% in due anni, e lo ha fatto in un periodo non facile, tra pandemia e guerra in Ucraina, e senza tagliare misure sociali come il reddito di cittadinanza né abrogare il super bonus edilizio. Draghi già ci aveva tolto le castagne dal fuoco da governatore della BCE, con il quantitative easing: ma perché tanta fretta di farlo fuori?

Il governo Meloni, invece, pur avendo ereditato quel consistente calo del debito (e quindi degli interessi da pagare) e pur avendo abolito il reddito di cittadinanza e il super bonus edilizio, è riuscito a far crescere l’indebitamento già nel 2023, e prevede di farlo crescere di altri 14 miliardi nel 2024. È lecito chiedersi perché fare una manovra così costosa, ma anche di così corto respiro, visto che i tanto sbandierati benefici fiscali durano solo un anno e non solo strutturali. Non sappiamo, infatti, se sarà possibile rinnovarli dopo, perché i vincoli europei che abbiamo sottoscritti prevedono sanzioni, a differenza dei vincoli costituzionali. Ma soprattutto bisogna chiedersi se non si possano fare leggi di bilancio senza aumentare il debito e senza demolire lo Stato sociale: certamente è possibile, ma bisogna saperlo fare.

Tra le molte cose che mi paiono criticabili della finanziaria 2024, vorrei soffermarmi su quella che viene presentata dal governo come la più favorevole ai più poveri, cioè il cosiddetto taglio del cuneo fiscale. Precisando – per quel che vale, visto che tutti i mezzi di comunicazione persistono nello stesso errore semantico del governo – che ancora una volta non si tratta in realtà di un taglio delle tasse, ma dei contributi previdenziali: cosa diversa e più subdola. Comunque, ci dice il governo, i salari più bassi finalmente aumenteranno, i lavoratori avranno più soldi in busta paga.

Prima di andare avanti è necessaria una piccola digressione.

Negli ultimi decenni l’Italia è quasi sempre cresciuta meno, economicamente, degli altri Paesi industrializzati. I salari sono cresciuti ancor meno, anzi, il loro potere d’acquisto è diminuito del 3% negli ultimi 30 anni, mentre nello stesso periodo cresceva in tutta Europa: non solo nei Paesi più ricchi, ma anche in quelli più poveri, come la Grecia, dove nello stesso periodo è cresciuto del 30%. Si è verificato un fenomeno non nuovo, che è quello di creare ricchezza (poca e a vantaggio di pochi, a dire il vero) e occupazione (mal remunerata, ovviamente), fruendo del basso livello dei salari. Come risultato di tale fenomeno, la ricchezza globale del settore imprenditoriale e finanziario è cresciuta, mentre i lavoratori dipendenti, nel loro complesso, si sono impoveriti. Tant’è che in Italia è contestualmente aumentata la povertà assoluta e relativa, come ripetutamente certificato dai dati statistici, con la comparsa di un fenomeno nuovo: poveri non sono più soltanto i disoccupati e gli emarginati, ma anche una crescente fetta di lavoratori occupati.

Al di là degli evidenti problemi umani e sociali, il problema dei bassi salari è ormai riconosciuto dagli economisti come un freno allo sviluppo del PIL. I motivi non sono difficili da capire. Uno è la mancata crescita dei consumi interni: se gli stipendi sono bassi, a chi venderò i miei prodotti? È per questo che da noi va bene l’industria del lusso, che vende soprattutto ai ricchi e all’estero. L’altro è che i bassi salari tolgono alle imprese lo stimolo necessario alla produttività e all’innovazione: la disponibilità di manodopera a basso costo, se è un vantaggio per l’impresa nell’immediato, a lungo termine la frena e la impoverisce. Che ci sia uno stretto rapporto tra bassi salari e bassa crescita non è una teoria economica astratta, ma un dato di fatto che emerge in tutta la sua evidenza dal raffronto delle diverse economie nazionali.

D’altro canto, è anche vero un altro fenomeno tipicamente italiano: il datore di lavoro spende per il dipendente molto più di quanto questi metta in tasca al netto, e la differenza è quello che gli economisti chiamano cuneo fiscale e, con linguaggio meloniano, potremmo chiamare pizzo di stato.

In sostanza esistono due problemi: i bassi salari e l’alto cuneo fiscale. Ed entrambi dovrebbero essere risolti sia per il bene dei cittadini direttamente interessati e segnatamente dei più poveri, sia per il bene dell’economia dell’intero sistema Italia. Si può farlo bene, senza aumentare il debito, o farlo male, aumentando il debito, come fa la legge finanziaria.

Se si considera che negli ultimi decenni è aumentata la povertà dei dipendenti mentre cresceva la ricchezza complessiva dei datori di lavoro, la strada appare ben chiara: far aumentare i salari di per sé, a spese dei datori di lavoro, che su quel lavoro guadagna. A costo zero per la collettività e non a sue spese, come fa oggi il governo finanziando a debito la manovra.

Nasce da qui l’esigenza di una legge sul salario minimo.

Non è una cosa nuova: è la via intrapresa da molti Stati, tra cui USA, Regno Unito, Australia e 21 dei 27 componenti l’Unione Europea. L’esperienza di tutti questi Paesi dimostra che il salario minimo funziona, fa da traino alla contrattazione collettiva e porta a un rapporto sano tra stipendi, produttività e sviluppo economico. Con buona pace non solo dei partiti di maggioranza, ma anche di Brunetta, che non ha ancora spiegato come mai Paesi di solida tradizione liberista come USA e Regno Unito si tengono ben stretta la legge sul salario minimo rispettivamente dal 1938 e dal 1909, la Nuova Zelanda e l’Australia dalla fine dell’Ottocento. Né perché in questi Paesi nessun governo conservatore ha mai tentato di abolirla.

Riguardo alla necessità di ridurre il cuneo fiscale, non c’è altro modo di farlo se non spostando una piccola quota della pressione fiscale dal lavoro dipendente al patrimonio. Una riduzione del cuneo ottenuta a debito è una presa in giro; anzi è un rimedio peggiore del male, perché il debito pubblico è una tassa occulta che aumenta con gli anni, ipoteca il futuro e colpisce i più poveri. Nell’attuale, deteriore linguaggio politico si tende a stigmatizzare anche una giusta tassazione sui patrimoni con l’espressione “mettere le mani nelle tasche degli Italiani”. Ma in realtà la tassazione dei patrimoni, nelle sue varie forme, è tipica dei Paesi ad economia liberale; infatti, in Cina, Paese comunista, non c’è mai stata, e solo nel 2021 è stata introdotta una timida sperimentazione di una tassa sulle proprietà immobiliari. Quanto ai Paesi di economia e cultura liberista, basterà fare alcuni esempi. Negli USA c’è una forte tassa sulle successioni (abolita in Italia da Berlusconi/centrodestra) e le proprietà immobiliari sono tassate all’1% del valore di mercato (da noi l’IMU sulla prima casa era solo dello 0,4% sul valore catastale, non di mercato, ma è stata abolita da Berlusconi/centrodestra). A proposito, ne ha fatti di danni all’economia, quel tipo là, con provvedimenti demagogici e tutt’altro che liberisti. In Francia, Svezia e Norvegia si paga una tassa sull’intero patrimonio. In Svizzera si paga una tassa sul patrimonio complessivo (l’8 per 1000) nei Cantoni che lo ritengono necessario al bilancio, ma comunque sono tassate le case e le successioni.

Nel 1992 l’Italia attraversò una grave crisi economica. Il governo in carica operò il prelievo forzoso del 6 per mille da tutti i depositi bancari e del 2-3 per mille del valore di tutti gli immobili. Fece poi una necessaria riforma delle pensioni che eliminò le cosiddette “pensioni baby”, un privilegio scandaloso dei dipendenti pubblici. Nessuno si impoverì per questo, e fu forse l’unico caso in cui si presero i soldi da chi li aveva, anziché aumentare indiscriminatamente le tasse o le accise sulla benzina. Altri tempi.

In Italia il patrimonio privato supera nel suo insieme i 10.000 miliardi e il risparmio delle famiglie supera i 3.000 miliardi. E sono tassati pochissimo, mentre i redditi da lavoro dipendente sono tassati troppo. È agendo su questo squilibrio che si dovrebbe ridurre il cuneo fiscale, non aumentando l’indebitamento. Anche perché, ricordiamolo, gli interessi da pagare per quest’anno supereranno la cifra di 100 miliardi. Ed è questo il vero problema della nostra economia, non il patto europeo di stabilità né tanto meno il MES.

Sarà bene, infine, ricordare che lavoratori dipendenti e pensionati nel loro insieme pagano l’80% delle imposte sul reddito, pur costituendo il 50% dei contribuenti; l’altra metà (comprese le famiglie Berlusconi, Agnelli, Moratti, Del Vecchio e Benetton, per fare qualche esempio) paga soltanto il restante 20%; e che il gap tributario-contributivo, pur essendo diminuito, vale ancora 86,9 miliardi (dati governativi). Se non si riequilibra questo divario l’economia italiana non si risolleva.

In conclusione, ancora una volta si può vedere come la politica possa far male all’economia. L’aumento dei salari potrebbe avvenire senza indebitare lo Stato, ma non lo si fa perché proposto dall’opposizione. La riduzione del cuneo potrebbe farsi a costo zero, ma non lo si fa per non smentire i propri slogan populisti.

Oppure perché non si è capaci?

In ogni caso, un sentitissimo grazie a “questi qua”.

 

Cesare Pirozzi

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