Il lotto 285 – capitolo diciottesimo

“La vita quotidiana di un combattente non è tutta canti e pianti; ma quando tutto è legato a canti e pianti, allora si ha il vero combattente.”
Lu Hsun

Sul lato opposto del piazzale svettavano sei pilastri quadrangolari di bianco travertino alti più di dieci metri, che reggevano un’architrave, anch’essa di marmo. La facciata, recente, doveva essere il monumentale ingresso, che ricordava i templi romani, ad una vasta zona dove facevano spicco, tra viali alberati e camminamenti fronzuti, numerosi palazzi anch’essi in puro stile razionalista. Al centro, alla fine di un largo viale, si ergeva, su di un alto pilastro, un’enorme statua di bronzo rappresentante una figura femminile dalle lunghe vesti che sorreggeva, con le braccia alzate, uno scudo e una lancia posta orizzontalmente sopra un elmo alato, con un serpente con le spire attorcigliate al braccio destro. La statua si specchiava su di un’ampia vasca dall’acqua cristallina ed immota ed aveva alle spalle un’alta scalinata che portava, evidentemente, all’ingresso di un imponente edificio sul quale spiccava la scritta STUDIUM URBIS.
Entrato che fui dall’ingresso principale, mi diressi verso il centro del piazzale e vidi, con mio grande stupore, seduto sul bordo della vasca, il mio inseguitore, che sembrava aspettarmi, con il viso rivolto verso di me e con uno stentato sorriso sulle labbra. Si era tolto la giacca ed aveva le maniche della camicia rimboccate che gli davano un’aria trasandata che non si addiceva all’individuo che avevo precedentemente incontrato alla stazione. Sembrava piu’ un bidello o un inserviente all’ingresso di una scuola. Stava un poco piegato in avanti, con le mani intrecciate fra le gambe ed il suo atteggiamento ora sembrava piu’ interrogativo e quasi sprezzante, tanto da farmi prevedere che l’incontro che si stava prefigurando non sarebbe stato una cosa tranquilla e piacevole. Ma più mi avvicinavo a quell’uomo più mi sembrava di conoscerlo. Aveva nei tratti del viso un che di austero, quasi nascondesse una qualche preoccupazione o, peggio, un dolore. Allora, quasi un lampo mi attraversò la mente e, finalmente, mi ricordai di lui. Era l’uomo che avevo visto uscire frettolosamente dalla sala del cinema dove avevamo presenziato alla triste cerimonia in onore del cadetto scomparso in circostanze misteriose, forse ucciso in quel modo barbaro che molti riferiscono essere dettato da un presunto “codice d’onore”. Una volta arrivato a due passi da lui notai che assumeva ancora quell’atteggiamento spavaldo e quasi indifferente che aveva assistendo in disparte al rito funebre in ricordo di quello che forse era stato suo compagno di corso o di studi. Ma perché si trovava in quel luogo ed, in più, perché mi aveva seguito fin lì? Non seppi darmi risposte finché lui non si alzò e, messosi di fronte a me, cominciò a parlare:
“Se ricorda, ci eravamo incrociati al cinema Massimo due giorni fa durante quella cerimonia funebre. Io ero seduto nell’ultima fila ed avevo notato come quel rito funesto, quelle lamentazioni e quei pianti, l’avessero colpita, perciò mi allontanai dal fondo del cinema quasi presentissi che lei volesse conferire con me per chiedermi perché ero lì e quale fosse la mia opinione in proposito. Perciò l’aspettai fuori, senza rivelare la mia presenza, e la seguii per tutto il tragitto dal cinema alla stazione, e poi sul tram, e poi , scesi che fummo, per il tunnel che lei aveva imboccato e lungo le mura e il parco, fin qui dove ci troviamo adesso. Ora vorrei raccontarle la storia da cui scaturisce la ragione del mio insolito comportamento.
Come avrà notato, anche se adesso non porto la divisa, sono un aviere e faccio parte del ruolo servizi all’interno dell’Accademia Aeronautica. Contemporaneamente sono iscritto a questa Università ed ho intenzione di laurearmi al più presto per lasciare l’arma perché, in questi momenti d’interregno, vorrei dedicarmi, da civile, alla lotta per la liberazione del mio paese. Avevo saputo fin dal primo momento che lei era alla ricerca di un luogo in città non proprio identificabile, ma che faceva riferimento a qualcosa che aveva a che fare con “La Sapienza” o cose simili, ed avevo notato che sotto la giacca portava una pistola. Così, vista la mia esperienza di militare, arguii che lei potesse essere un intellettuale prestato alla resistenza e, per questo motivo, rivolgesse le sue ricerche verso un luogo che rappresentasse le sue aspirazioni e nel contempo potesse essere un rifugio dopo il suo lungo peregrinare.”
Dopo quelle parole inconsuete mi resi conto di come tutti i miei sogni si stessero realizzando in quel momento. Avevo raggiunto “La Sapienza”, sia come luogo che sarebbe stato poi il testimone dei miei primi approcci alle scienze matematiche, sia come mito, rappresentato dalla statua di Atena, dea della saggezza, sotto la quale adesso mi trovavo.
Ma la mia improvvisa consapevolezza del luogo in cui ero capitato, e facendo mente locale sulle parole del personaggio che in qualche modo mi aveva accompagnato, come un Virgilio per Dante, in quella che poteva essere stata la mia discesa agli inferi, mi fece sospettare che quella persona, nonostante le sue buone intenzioni che lo spingevano alla lotta, nascondesse qualche segreto. Aveva detto di essere ancora studente presso questa Università e di essere, nel contempo, militare di leva nell’Accademia Aeronautica. Mi chiesi come queste due posizioni potessero conciliarsi, vista anche la distanza che c’era tra queste due sedi. Mi rivolsi quindi nuovamente a lui per farmi dare qualche delucidazione su questo improbabile connubio e il mio sguardo indagatore venne ben presto premiato da questa confessione:
“Come lei certamente avrà udito anche l’ufficiale che giaceva privo di vita nella bara sul palcoscenico del cinema era iscritto a questa Università. Lo conobbi infatti mentre passeggiavamo in questi viali con una cartella piena di libri sotto braccio. La cartella che lei ha notato al mio fianco è un dono che lui mi fece in una di quelle occasioni ed io, rispettoso di quella sua generosità, volli rendergli segretamente omaggio presenziando al suo funerale. Ma quell’atteggiamento sfuggente che lei aveva notato in me in quella occasione era dovuto ad un rimpianto ben più pesante e doloroso. Come forse saprà anche fra questi viali si sono verificati e si verificano ancora quasi quotidianamente quelle pratiche ignominiose che hanno portato alla morte del mio amico. Vi sono anche qui dei personaggi che si fanno chiamare studenti ma che con la mitezza e l’intelligenza di costoro non hanno niente a che fare. Sono provocatori, in massima parte iscritti a congregazioni che, sotto la facciata di associazioni “culturali”, professano odio ed hanno il culto della violenza. Questo fa di loro i seguaci di quella teppaglia fascista che imperversa da più di vent’anni nel nostro consesso civile. Diverse volte ebbi a che fare con questi loschi figuri, addirittura partecipai, nella mia ingenuità giovanile, ad alcune delle loro azioni, ma ben presto mi ricredetti e cercai di evitarli il più possibile. Ma essi continuavano a spadroneggiare nell’Università e dovetti assistere, mio malgrado, a quella che fu la più estrema e delittuosa di tutte.”
Nonostante il discorso dell’aviere si facesse sempre più interessante, fummo all’improvviso interrotti da un allarme aereo, con le sirene che suonavano ininterrottamente. Conoscendo bene l’ubicazione dei possibili rifugi, l’aviere mi condusse nei sotterranei del Rettorato, e più precisamente in una vasta sala che fungeva da gipsoteca. Eravamo così al sicuro e passammo il pomeriggio, fino a che l’allarme non fosse cessato, accanto a statue, busti, tronconi di eroi e dei dell’antichità, che sembravano osservarci con i loro occhi spenti. Guardandomi intorno mi accorsi che cercavo una qualche statua che potesse rappresentare la dea dei miei sogni, la dea della Sapienza, Atena, o Minerva per i romani, (a parte la blasfemia dei fiammiferi), ma la mia ricerca si rivelò deludente, in quanto i gessi erano tutti ammassati e confusi, cosicché, con mio grande disappunto, mi rimase difficile identificarla.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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