Separazione giudiziale

Antonella

Affidamento dei figli e spazio d’ascolto del minore dinanzi al giudice

L’affidamento dei figli è regolato nel nostro ordinamento dagli artt. 155 e ss. del codice civile.

Sul presupposto che  anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore abbia il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale, il giudice chiamato a pronunciare la separazione personale dei coniugi, deve adottare i provvedimenti relativi alla prole, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa, valutando prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori, oppure stabilire a quale di essi i figli debbano essere affidati, determinando in tal caso i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli stessi.

L’affido dei figli definisce la ripartizione della potestà genitoriale (ossia il complesso di poteri che competono ai genitori nell’interesse del figlio) sui figli minorenni in situazioni di non convivenza, indotta dalla separazione dei genitori.

Il nostro ordinamento, con la riforma del 2006, predilige quale forma di affidamento quello condiviso, che prevede, in caso di cessazione della convivenza dei coniugi, l’attribuzione stabile ad entrambi i genitori dell’esercizio della potestà in regime di comune accordo. Presupposto per tale forma di affidamento è naturalmente l’assenza di conflittualità insanabili tra i genitori, ovvero il permanere di un’armonica consonanza tra gli stessi.

Nonostante il favore legislativo per cui il giudice che pronuncia la separazione ed i consequenziali provvedimenti relativi ai figli deve valutare, prima di ogni altra, la soluzione che porti all’affidamento ad entrambi i genitori, nella prassi, un ruolo non irrilevante viene riconosciuto all’interesse del minore, che può portare anche all’affidamento esclusivo ad uno solo di essi.

Se in linea generale, i figli minori vengono affidati ad entrambi i genitori, in ossequio al principio dell’affidamento condiviso, l’art. 155-bis c.c., nel regolamentare il caso eccezionale dell’affidamento a un solo genitore e l’opposizione all’affidamento condiviso, prevede, che il giudice possa disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori, qualora ritenga, con provvedimento motivato, che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore.

Nella stragrande maggioranza dei casi, comunque, anche in regime di affido condiviso, il figlio finisce col vivere prevalentemente con uno dei genitori, il quale, per questa ragione viene definito “collocatario”.

Nell’emanare i provvedimenti relativi ai figli il giudice può assumere qualsiasi mezzo di prova che ritenga necessario. Lo stesso deve, inoltre, sempre sentire il minore qualora abbia compiuto i dodici anni o anche qualora abbia un’età inferiore, con capacità di discernimento. L’esigenza di ascoltare il minore costituisce una costante, intesa ad attribuire rilievo alla personalità e alla volontà del figlio, in relazione ai provvedimenti che trovano la loro ragion d’essere nel suo interesse e che non possono prescindere da un diretto colloquio con il soggetto interessato, soprattutto nei casi di maggiore conflittualità familiare.

Orbene la tutela del supremo interesse del minore in tale delicatissima materia assurge a criterio guida che deve orientare i giudici nel valutare l’opportunità del suo ascolto.

In merito, di recente, la riforma sul riconoscimento dei figli naturali (L. 219/2012), tra le altre previsioni, ha assegnato un ruolo di rilievo all’ascolto del minore, prevedendo l’introduzione nel codice civile di una nuova norma, l’art. 315 bis, rubricata «Diritti e doveri del figlio», che attribuisce al figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, il diritto di essere ascoltato, non solo all’interno dei conflitti familiari conseguenti alla rottura del rapporto (come già previsto dall’art. 155 sexies c.c.), ma in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano, s’intende quando ciò non contrasti con il preminente interesse della tutela del minore stesso.

La finalità dell’ascolto è quella di poter meglio individuare l’assetto dei rapporti futuri tra singolo genitore e figlio. Possono venire ascoltati anche bambini di età inferiore ai dodici anni, e questo si verifica allorchè lo suggeriscano le circostanze, ovvero quando il genitore non convivente con il figlio formuli al giudice domanda di collocazione del figlio presso di sé, come espressione di un desiderio manifestato in modo spontaneo ma deciso da parte del minore stesso: in situazioni del genere, anche un bambino di 9 o 10 anni dovrebbe venire ascoltato.

Ovviamente, l’ascolto non potrà riguardare bambini in tenerissima età, dovendo pur sempre il giudice considerare, preliminarmente, se si tratti di minore dotato di capacità di discernimento in relazione alle questioni oggetto dell’ascolto.

Quanto ai tempi e modalità dell’ascolto, l’incontro tra bambino e giudicedovrebbe avvenire nella prima udienza, prima ancora che il giudice adotti i provvedimenti provvisori; e questo proprio perché la funzione dell’ascolto è appunto quella di aiutare il giudice a dettare regole utili e adeguate alle esigenze del bambino stesso.

E’, tuttavia, più frequente che l’ascolto venga disposto dal giudice istruttore, in una fase più avanzata del procedimento, tipicamente la cd. fase istruttoria.

Il minore può essere ascoltato secondo due modalità: ascolto diretto o ascolto indiretto. Per ascolto diretto si intende l’audizione da parte del Giudice in udienza, eventualmente, anche con l’assistenza di un ausiliario esperto. Per ascolto indiretto, si intende l’ascolto delegato totalmente ad un ausiliario, anche nell’ambito di una Consulenza tecnica d’ufficio. In tal caso, l’ascolto del minore sarà inserito in un processo di valutazione più ampio e complesso, teso a valutare anche le competenze genitoriali; la consulenza si articolerà, infatti, in colloqui, sia individuali che congiunti, con entrambi i genitori, al fine di comprendere l’entità e le modalità attraverso cui si esprime il conflitto; in una indagine ambientale, e dunque, relativa al contesto fisico e relazionale in cui il minore è inserito, che comprende l’abitazione, la scuola che frequenta ed altri ambienti con cui egli è eventualmente a contatto; nel colloquio con gli insegnanti, al fine di comprendere il rapporto del minore con i propri compagni ed appurare se i comportamenti dello stesso sono cambiati o meno dopo la separazione dei genitori e se le problematiche familiari hanno inciso o stanno incidendo sul rendimento scolastico. Un’indagine, dunque, che consente una “lettura multiforme” della vita del minore nella famiglia, nel contesto scolastico e nel tempo libero, che culmina nell’”ascolto”, teso ad esplorare i suoi desideri, i suoi bisogni ed i suoi vissuti rispetto alla separazione dei genitori, cogliendo non solo “cosa” dice e “come” lo dice, ma anche i messaggi impliciti, che possono derivare da un comportamento significativamente silente.

In base all’età, l’indagine si svolge con modalità diverse che vanno dalla semplice osservazione, attraverso sedute di gioco con entrambi i genitori, al colloquio vero e proprio. Se il bambino ha compiuto dodici anni, in genere, viene sentito direttamente dal giudice. Altrimenti da uno psicologo incaricato, in quanto va accertata la sua capacità di discernimento (la facoltà di giudicare, valutare e distinguere correttamente). Questo esperto, in qualità di consulente tecnico di ufficio, deve avere una grande esperienza e seguire alcune procedure ad hoc per dare voce alle inclinazioni e al vissuto del minore, tenendo conto della personalità dei genitori e dell’ambiente familiare in cui è cresciuto. È fondamentale che l’esperto utilizzi un linguaggio semplice e non lo faccia sentire responsabile della conflittualità tra madre e padre o delle preferenze che potrà esprimere riguardo all’organizzazione futura della sua vita. Se è consapevole dei cambiamenti che stanno avvenendo attorno a lui, può essere coinvolto in modo costruttivo e adattarsi meglio alla riorganizzazione dei rapporti familiari.

Siamo di fronte ad una disciplina ancora in fase embrionale che, in una prospettiva de iure condendo, dovrà ulteriormente svilupparsi intorno alla figura del minore, valorizzando l’effettiva costruzione di un procedimento nel quale il minore possa e debba far sentire la sua voce, ogni qualvolta si controverta dei suoi diritti e dei suoi interessi. Ciò al fine di pervenire a decisioni che, in quanto lo riguardino direttamente o indirettamente, non siano avulse, o, addirittura, in contrasto con le sue aspirazioni, le sue opinioni, i suoi desiderata. Ciò presuppone la realizzazione, per così dire, di un autonomo “spazio dedicato” e la necessaria preparazione, la competenza specifica e la formazione specialistica di tutti gli operatori, magistrati, avvocati, assistenti sociali ed esperti in psicologia e pedagogia infantile, che devono poter collaborare sinergicamente in funzione della realizzazione del  “best interest” del minore.

Si tratta di un punto di arrivo, poiché per la prima volta il Legislatore Nazionale, compulsato dalle istanze europee ed internazionali, ha elevato il minore a titolare di un vero e proprio diritto a far sentire la sua voce in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano, assicurandogli un’effettiva opportunità di esprimere propri bisogni e desideri

Il nuovo art. 315 bis, comma 3, c.c. così come formulato, rappresenta, in qualche modo, il grimaldello normativo teso a scardinare definitivamente l’idea, assai diffusa purtroppo tra molte coppie di genitori italiani, di sentirsi padroni dei figli. Una rivoluzione culturale necessaria perché proprio nella fase patologica e conflittuale della loro unione, coniugale o di fatto che sia, i figli diventano meri oggetti da contendersi e perfino da espropriare, un bottino di guerra da conquistare, l’escamotage per ottenere l’assegnazione della casa coniugale o l’assegno di mantenimento o, comunque, per acquisire maggiore potere nel conflitto in atto, o da strumentalizzare, perfino, deprecabilmente, come armi di belligeranza occulta nell’ambito di una separazione consensuale o di un divorzio congiunto.

E’, dunque, pregevole l’intento del Legislatore della riforma di aver valorizzato il ruolo del minore nell’ambito del processo, riconoscendogli a chiare lettere il diritto di essere ascoltato, e di voler sovvertire, almeno nelle intenzioni, l’idea che gli adulti possano arrogarsi il diritto di decidere delle sorti dei propri figli minori, mortificando o rimanendo sordi ai loro desideri ed alle loro esigenze, ovvero dall’ormai consolidato assetto dei propri interessi e /o dinamiche relazionali,  accecati da un insensato egoismo o da uno spietato rancore verso il partner.

Introducendo nel codice civile l’art. 315 bis, comma 3, il Legislatore italiano si è adeguato finalmente alle norme sopranazionali che già da tempo contemplano il diritto del minore all’ascolto. In particolare, la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (sui diritti del fanciullo), ratificata con legge n. 176 del 27 maggio 1991, che all’art. 12 ha riconosciuto al minore il diritto all’ascolto ed alla completa partecipazione nei processi che lo riguardano, a seconda della capacità di discernimento dello stesso; la Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli), ratificata con Legge 20 marzo 2003 n. 77, prevede che al minore vanno riconosciuti il diritto di ricevere tutte le informazioni, il diritto ad essere consultato e ad esprimere la propria opinione nel corso della procedura, di essere informato sulle possibili conseguenze delle aspirazioni dal medesimo manifestate e delle sue decisioni; il diritto di chiedere la designazione di un rappresentante speciale nei procedimenti che lo riguardano, ogni qualvolta sussiste un conflitto d’interessi con i genitori.

Immediata applicazione di tali principi è stata operata dal Tribunale di Roma, Sez. I, con decreto del 25 giugno 2011, il quale, in relazione alla questione dell’affidamento del figlio minore della coppia, di 13 anni di età, ha chiaramente evidenziato come l’art. 155 sexies c.c. tratteggi il dovere del giudice di ascoltare il minore, mentre l’art. 315 bis c.c., delinei il diritto del minore ad essere ascoltato dal giudice, così guardando al fanciullo non come semplice oggetto di protezione ma come vero e proprio soggetto di diritto, a cui va data voce nel momento conflittuale della crisi familiare.

Nel caso specifico di una complessa e delicata separazione giudiziale, in cui la madre chiedeva la collocazione del minore presso di sé, con relativa richiesta di mantenimento, lamentando che il figlio minore era stato oggetto di indebiti condizionamenti, al punto da allontanarsi dalla figura genitoriale, al fine di avere un quadro completo ed esaustivo della vicenda, il Tribunale ha ritenuto imprescindibile ascoltare il minore, reputando, peraltro, opportuno delegare l’incombente ad un esperto in psicologia infantile, tenuto conto dell’opportunità di evitare che l’ascolto del fanciullo,  venisse effettuato senza una adeguata competenza nell’accertamento della capacità di discernimento.

Così all’udienza del 25.06.2011, l’Ill.mo Presidente Dott. Crescenzi, previa audizione del minore, alla presenza e con l’ausilio di una psicologa specializzata, disponeva per l’affidamento dello stesso al padre, con diritti di visita per la madre.

Appurando in sede di ascolto che effettivamente nel domicilio paterno, Mirko, ha tutto il suo “mondo”, la scuola, gli amici, la palestra ed ogni comodità (compresi i mezzi di collegamento e la indispensabile metropolitana per gli spostamenti, di cui l’abitazione materna è sguarnita), per cui un suo trasferimento altrove inciderebbe traumaticamente sulle sue dinamiche relazionali ed affettive, o finirebbe per rappresentare per lo stesso un sacrificio immane, per la distanza della casa materna dal suo centro d’interessi scolastici, ricreativi ed affettivi.

Decisiva ai fini della decisione è stata la considerazione dell’attuale stato di fatto e della scelta operata dallo stesso minore di vivere col padre, attraverso una esplicita dichiarazione di volontà manifestamente espressa dallo stesso, con serenità e non equivoca determinazione, caratterizzata da una maturità di giudizio ed un equilibrio assolutamente lodevoli!

di Antonella Virgilio