The Get Down: rap battles e rime sulla selvaggia gioventù del Bronx

Barbara

La nuova serie di Baz Luhrmann racconta l’ascesa di una crew newyorkese negli anni della disco music

Netflix colpisce ancora, e lo fa senza mezzi termini scendendo nell’arena del rap. La battaglia intrapresa da The Get Down, la nuova serie targata Baz Luhrmann, sfida l’audience sferrando rime, remix ed invitando lo spettatore a scendere sulla pista da ballo. Attenzione però, non è un prodotto destinato esclusivamente ai nostalgici dei pantaloni a zampa d’elefante e Diana Ross, anche se non manca di strizzare l’occhio furbescamente ai fan di Bruce Lee e Star Wars. The Get Down è un vero e proprio kolossal, il coinvolgimento è trasmesso come personale dal regista, che in 10 anni di lavoro ha intrapreso un risultato trionfale, per la “modica” cifra di 120 milioni di dollari. Siamo negli anni dell’ascesa della disco music, dell’hip hop e delle lotte fra writers, ma anche della criminalità organizzata che traffica dai garage fino ai night club; la trasgressione giovanile imperversa con le droghe di largo consumo, mentre si acuisce il divario sociale fra la scintillante Manhattan e le periferie, quali promettenti terreni d’investimento per i costruttori. Sono anche gli anni delle differenze sociali fra bianchi e neri, fra middle class ed i nuovi interpreti della politica americana, acrobati fra corruzione e politically correct. Tutto questo è The Get Down, la serie che, lanciata da Netflix solo lo scorso 12 agosto, è già stata incoronata come un gioiello dell’intrattenimento streaming. Vuoi per l’estro di Lurhmann, regista dei senza tempo “Moulin Rouge” e “Romeo + Juliet”, vuoi per un’ambientazione che parla da sola: il South Bronx. Luhrmann racconta il sobborgo del sogno americano fin dalla location: nessun set artificiale, la serie è stata girata proprio fra Glendale, Manhattan, il Bronx e Brooklyn. Con cambi d’inquadratura repentini ed incalzanti sull’azione, Luhrmann interpreta la contea newyorkese del 1977 attraverso le speranze di un gruppo di portoricani pieni di talento. È la storia di Ezekiel “Books” Figuero, promessa del rap e “paroliere” dal passato travagliato, e della prodigiosa ugola soul di Mylene Cruz, suo grande amore, accompagnati dalla loro gang. Ma The Get Down, innanzitutto, è una storia che parla di scelte generazionali: che si affrontino costumi, religione, affermazione sociale o sessualità, le storie s’intrecciano seguendo il filo del riscatto e della speranza. È lo stesso Ezekiel che, quale MC (n.d.r. maestro cerimoniere), racconta anni avanti da un palco la storia in cui lo spettatore sta per calarsi, un affresco rap che Luhrmann rende tangibile solleticando la memoria colletiva, grazie a documenti storici d’archivio. Non è casuale, infatti, il contributo alla sceneggiatura del giornalista americano Nelson George, o di Grandmaster Flash, considerato uno dei padri fondatori dell’hip hop ed interpetato lui stesso nella serie (tra l’altro, ne è anche produttore associato, mentre il numero uno dei rapper, Nas, è produttore esecutivo). Fra coreografie hip hop, luci stroboscopiche e citazioni musicali però, The Get Down lancia un avvertimento: “Reale come la notte che diventa nera, questa non è una favola leggera”. E mentre sullo sfondo “il Bronx sta bruciando”, le tenebre sono in questa storia l’input per il successo, così come il “lume” di Luhrmann ha rischiarato un piatto intrattenimento di fine estate, proiettando la sua luce fino al 2017, quando potremo conoscere il successo delle incisioni discografiche della giovane crew.

di Barbara Polidori

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