Michele è morto suicida, lasciando una lettera con la sua ultima denuncia

La vicenda è nota. Michele, un ragazzo friulano di trent’anni, si è tolto la vita. Prima di farlo, ha scritto una lettera che i genitori decidono di far pubblicare. La lettera è la denuncia, consapevole e mirata, di un ragazzo precario che sognava di diventare grafico. Descrive una realtà fatta di sofferenza e di sconfitte, che lui ha vissuto ma che non riguarda solo lui.
Commentare una storia del genere non è facile. Essendo un lettera anonima, non si hanno gli elementi necessari per comprendere le reali motivazioni, e non lo si può fare solo da qualche riga scritta.
Siamo bombardati ogni giorno, specialmente in tv, da disgrazie personali date in pasto al pubblico solo per specularci su e, pateticamente intrise di buoni sentimenti.

È interessante, però, notare le reazioni che questa storia ha suscitato, soprattutto sui social network. Si potrebbe far rientrare la gran parte dei commenti in due categorie. La prima, e più diffusa, è quella di chi si indigna e se la prende con la politica e i politici. Altri, al contrario, puntano il dito contro gli stessi giovani, accusati di avere poco coraggio e poca capacità di soffrire.

Eppure, entrambe queste visioni sono grossolane. In tutt’e due c’è qualcosa di vero e nessuna delle due, però, riesce a centrare il bersaglio.
Abbiamo assistito negli ultimi anni molte volte ad attacchi diretti verso i giovani. Chi accusa i giovani di essere viziati lo fa sempre da una posizione sicura. Chi li accusa di essere poco intraprendenti ha sempre in tasca un contratto a tempo indeterminato.
I giovani non sono stati attaccati solo a parole, ma anche con le scelte politiche, che li hanno sempre messi all’ultimo posto. Sono stati messi in un mondo in cui sembra che l’unica cosa che conta sia la competizione. Una sana competizione è in molti casi un moltiplicatore di risorse, ma questo non può voler dire una rinuncia ai vantaggi del cooperare con gli altri.

Si straparla di meritocrazia quando il mondo del lavoro, in realtà, si basa su favoritismi e raccomandazioni. Cosicché quando qualcuno non ha successo, anche non per suoi demeriti, lo si bolla come fallito.
D’altronde, questo ordine di cose non è per nulla naturale o calato dall’alto. È, invece, il risultato di chiare scelte. Scelte che prendiamo tutti noi. Si tende a dare sempre la colpa agli altri, mai guardando la nostra parte di responsabilità. Non si può essere contro qualcosa e poi conformarsi implicitamente a quella stessa cosa con i piccoli gesti quotidiani.

Parallelamente si è persa ogni speranza nel cambiamento. I sondaggi mostrano la grande voglia dell’uomo forte, alla Trump. Sperando che con la forza si possa cambiare una realtà che appare immutabile. La costante crescita dell’astensionismo riflette il disinteresse dilagante per la politica. Disinteresse che non è neanche necessario misurare coi numeri. Basta guardarsi attorno. Soprattutto tra i giovani regna l’individualismo. Pochissimi cercano di organizzarsi e fare qualcosa di più che indignarsi attraverso uno smartphone. Non si erano rassegnati in Sudafrica sotto l’apartheid o in Cina a piazza Tienanmen di fronte ai carri armati, solo per citare due esempi, e lì le condizioni non erano certo più semplici.

Non si parla di una protesta stupidamente violenta come quella a cui inneggiavano alcune scritte comparse a Bologna dopo la morte di Michele. Si tratta di non accettare più compromessi solo per paura. Di scendere in strada e affermare i propri diritti in maniera propositiva e non banale.
Un ottimo esempio ci può venire proprio dagli immigrati. Una lezione si potrebbe imparare da loro che non hanno dato nulla per scontato. La lezione che le cose possono cambiare. Anche se questo costa fatica e tempo.

di Pierfrancesco Zinilli