Quel 17 febbraio di quaranta lune indiane fa
Correva, correva davvero forte l’anno 1977, fin dal suo primo mese. Il 17 gennaio a Napoli un’assemblea di precari, studenti universitari e laureati disoccupati decide di occupare per una settimana alcune facoltà. Il Ministro della Pubblica Istruzione Malfatti ha revocato con un decreto una delle conquiste del 1968: la liberalizzazione dei piani di studi. La protesta si estende rapidamente in molte altre città. Il 1 febbraio un gruppo fascista compie un’incursione alla Sapienza di Roma, sparando contro gli studenti e ferendone gravemente uno alla testa: Guido Bellachioma. Il giorno successivo, un corteo di protesta va sotto la vicina sede del Fronte della Gioventù di destra e la incendia. Da una Fiat 127 bianca scendono due persone che sparano contro gli studenti. Due di questi, Daddo Fortuna e Paolo Tommasini, rispondono con una loro pistola al fuoco, rimanendo feriti sull’asfalto. Sono poi arrestati, perché a sparare da quella 127 erano stati agenti in borghese agli ordini dell’allora Ministro degli Interni Francesco Cossiga. Da quel 2 febbraio il ’77 prende ad attraversare i suoi giorni, i suoi mesi alla velocità di un furore in accelerazione gravitazionale e generazionale. Il 17 febbraio, sullo schermo della realtà e della storia, scorre quella turbinosa sequenza politica che va sotto il nome di “Cacciata di Lama dell’Università”. Lama è il segretario generale della Cgil. L’Università è la Sapienza di Roma. Luciano Lama è venuto a fare un comizio nel piazzale centrale dell’Ateneo per dividere il movimento, ricondurne una parte sotto il controllo del Partito Comunista, affidare l’altra a misure repressive di ordine pubblico. Il Pci sta tentando di fare il compromesso storico con la Democrazia Cristiana e non può tollerare che nasca un movimento di massa alla sua sinistra. Ma è proprio quello che avviene. Il suo comizio viene interrotto dagli slogan a rovescio degli “Indiani Metropolitani” che chiedono ironicamente più sacrifici, più sfruttamento, meno soldi. È innalzata una scala con un pupazzo di pezza e scritte quali “NESSUNO L’AMA”, “LAMA NON L’AMA”, “I LAMA STANNO IN TIBET”. A qualcuno nel servizio d’ordine del sindacato e del Pci partono i nervi e un estintore azionato proprio contro quella che è definita “l’ala creativa del movimento”. È il segnale dell’arrembaggio al camion su cui Lama sta parlando. Da quel preciso istante la frattura tra la sinistra ufficiale e quella del movimento si fa verticale, corre vertiginosamente lungo tutta la penisola, diventa irrecuperabile. Fuoriesce dalla Sapienza e si propaga in tutte le altre università, scuole medie superiori, strade, case, quartieri, fabbriche.
Il ’68 è stato soprattutto un movimento di liberazione giovanile dalle anacronistiche arretratezze della cultura, del costume nazionale italiano, partito con gli scontri davanti la Facoltà di Architettura a Valle Giulia a Roma. Il 1969 era stato invece l’anno del cosiddetto “operaio massa”, quello dequalificato, emigrato dal sud agricolo e arretrato d’Italia e spremuto alle catene di montaggio delle grandi industrie del nord, il cui simbolo era la Fiat Mirafiori di Torino. A queste due forti spinte di massa dal basso della società, lo stato risponde con la strategia della tensione, le bombe fasciste all’Altare della Patria a Roma, la strage della Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano. Il movimento del ’77 irrompe in questa tormentata scena storica, ricomponendo all’improvviso l’intero quadro sociale. La spinta è ora esercitata simultaneamente dalle aule, dalle fabbriche, dagli uffici, dai quartieri, persino dalle caserme con i “proletari in divisa”. Il movimento penetra capillarmente in ogni ambito, tiene testa all’intero apparato statale, economico, amministrativo e, anzi, lo mette sotto scacco. È l’ultimo grande, turbinoso tentativo politico e sociale di delineare una più avanzata frontiera di giustizia sociale in Italia. Poi tutto comincia a declinare inesorabilmente. E così come la tragica uccisione di Moro, per mano delle Brigate Rosse nel 1978, e la morte di Berlinguer per ictus durante un comizio a Padova nel 1984 – entrambi avversari seppure diversi di quel movimento – segna il tramonto di un’epoca storica e politica, anche l’arresto progressivo del furore che correva nell’anno 1977 ne è segnato. Risuonano, però, ancora le note e le parole di Fabrizio De André nella sua “Coda di Lupo” su quel 17 febbraio indiano di quaranta lune fa: “Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn/ capelli corti generale ci parlò all’Università/ dei fratelli tute blu che seppellirono le asce/ ma non fumammo con lui/ non era venuto in pace:/ e a un dio “fatti il culo” non credere mai”.
di Riccardo Tavani