Buttati via. L’ecatombe dei bambini sepolti dal mare.

Galleggiano nell’acqua come spazzatura di mare, sembrano taniche di plastica vuote buttate via e che l’acqua non ha digerito, invece sono persone. Centinaia di uomini, donne e bambini: il carico intero di un barcone rovesciato. Li ha fotografati il MOAS, l’ONG di Chris Catrambone, una delle organizzazioni non governative al centro delle polemiche per i presunti rapporti con gli scafisti, una delle organizzazioni che ancora lavora per portare in salvo i naufraghi del Mediterraneo. Non tutti quelli che si mettono in mare si salvano, molti muoiono e tra quelli che muoiono tanti sono piccoli, piccolissimi, alcuni addirittura appena nati. Secondo l’Unicef quest’anno il mare si è preso almeno un bambino al giorno. Uno per ogni alba, o uno per ogni tramonto.
Nessuno li ha uccisi, li abbiamo semplicemente lasciati andare a fondo.

A commento della fotografia di quei corpi a galla nelle onde, Chris Catrambone ha scritto due parole soltanto: “no words”, come se non fossimo più capaci di raccontare l’orrore quotidiano che ci dà oggi il Mare Nostro.
Il silenzio uccide gli innocenti.
Dei bambini affogati non si fa menzione: non se ne parla seduti alle scrivanie degli uffici, non se ne parla ai tavolini delle mense, non se ne parla nelle panchine dei giardini pubblici, al banco degli aperitivi, non se ne parla nei banchi di scuola.
I bambini muoiono in mare buttati via come spazzatura e noi abbiamo perso le parole, tutte. Tutte quelle che avevamo in tasca, tutte quelle che ci hanno insegnato, tutte quelle che hanno un peso e che avrebbero dovuto disporci alla comprensione di un dolore universale.
Ci hanno raccontato ad ogni Natale di Erode e della “strage degli innocenti” che tanto somiglia alla strage dei bambini copti sugli autobus egiziani, anche loro innocenti, uccisi pochi giorni fa per il credo dei loro padri.
Ci hanno fatto imparare a memoria le parole di Carducci ed il suo Pianto Antico per la perdita prematura di un figlio: quel bambino sepolto nella terra “negra” rimanda alla terra dei fuochi, ai suoi veleni e alle sue incolpevoli giovanissime vittime.
Ci siamo impressi nella memoria la madre di Cecilia, che con la figlia morta in braccio scendeva da “uno di quegli usci” di Manzoni: la stessa immagine ritorna nei padri siriani coperti dalla polvere dei bombardamenti coi figli morti in braccio.
Avremmo fotografie, quadri, statue, storie di ogni tempo, avremmo a disposizione tutti gli strumenti per raccontare e raccontarci la lista della spesa dei mali del mondo.
Avremmo le parole per dire che per ogni bambino che muore un sogno limpido svanisce, che sia un bambino migrante rovesciato in mare, un bambino soldato costretto alle armi, un bambino travolto al concerto di Manchester, un bambino finito sotto i bombardamenti delle città siriane o un bambino malato di tumore per i veleni della terra dei fuochi.
C’è qualcosa di peggio della xenofobia e del razzismo: il silenzio. Le parole muovono le coscienze, dispongono all’accoglienza. Cerchiamo almeno di raccontarci che ogni bambino perduto, anche il più lontano nel tempo e nella geografia, ha la faccia di nostro figlio.

di Daniela Baroncini

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