Il Messico è nemico della libertà di stampa, come raccontano gli omicidi di Nadia Perez e Rubén Espinosa

“Bàjale de guevos!”. Stop taking photographs. Non documentare, né con una fotografia, né con una penna. Se non vuoi fare la fine di Regina Marinez, fotoreporter del magazine “Proceso”, uccisa nel 2012.

In America Latina, in particolare in Messico, sono queste le regole vigenti per la carta stampata. Dal 2000 sono scomparsi 100 giornalisti: lo scorso anno sono stati uccisi 12 reporter e dal 1° gennaio a oggi siamo già a 11 morti. Nel 2017 è stato ucciso quasi un repoter al mese, come in Siria dove c’è una guerra civile da sette anni.

In questo inferno c’è un inferno che è ancora più infernale: lo Stato di Veracruz, uno dei 31 del Messico. Dal 2010 al 2016, i sei anni di amministrazione del governatore Javier Duarte Ochoa (arrestato lo scorso anno per aver investito denaro di provenienza illecita e per il suo coinvolgimento nella criminalità organizzata, ndr), sono scomparse 2340 persone, 17 giornalisti sono stati uccisi e 3 sono “desaparecidos”.

Uomini di potere come Duarte hanno nemici tra quei giornalisti che non riescono a non fare il loro lavoro: divulgare qualsiasi notizia. I maggiori oppositori sono stati ritrovati morti la mattina del 31 luglio 2015, in un appartamento nel quartiere Narvarte, a Città del Messico. Uccise con un colpo alla nuca, dopo essere stati trucidati, sono cinque persone, quattro donne e un uomo: l’antropologa e militante Nadia Vera Perez (32) e il fotoreporter Rubén Espinosa (31) sono il piatto forte. Insieme a loro perdono la vita anche le tre coinquiline di Nadia e la donna delle pulizie.

Nadia e Rubén si erano trasferiti a Città del Messico proprio a seguito delle numerose minacce ricevute quando erano a Veracruz: “Se mi succede qualcosa – aveva dichiarato Nadia in un’intervista qualche giorno prima di morire – la responsabilità sarà di Javier Duarte Ochoa”. Eppure le minacce non sono mai state prese in considerazione dagli inquirenti incaricati delle indagini. Nessuno è stato indagato come mandante dell’omicidio e dopo tre anni si è arrivati alla sola condanna di un ex poliziotto, che in primo grado si è visto piombare addosso 315 anni di carcere. Nel 2017 la “Comision de Derechos Humanos de la Ciudad de México” ha denunciato irregolarità costanti durante le indagini: un continuo depistaggio. “Ci sentiamo come fossimo ancora al primo giorno”, ha dichiarato Patricia Espinosa Becerril, sorella di Rubén.

Il Messico è una terra cruenta e a raccontarlo non è solo la storia di Nadia e Rubén: tra le più cruente degli ultimi anni c’è la scomparsa di 43 studenti di Ayotzinapa, nel settembre 2014. Non si sa se siano desaparecidos o morti: qualche tempo dopo la scomparsa furono ritrovate due fosse comuni, in una 28 resti, nell’altra 8, ma non siamo se siano riconducibili ai ragazzi di Ayotzinapa. E’ un paese fatto di violenza, giustiziazioni, fosse comuni e macheti, come quelli che sfigurarono gli otto studenti dell’associazione “YoSoy132”, di cui era militante anche la stessa Nadia Perez, che aveva definito la sua Veracruz una “fosa olvidada”, una fossa dimenticata.

di Irene Tirnero

Print Friendly, PDF & Email