Migranti ignoti

Il più grande monumento al Migrante Ignoto è il Mediterraneo. Lo è diventato grazie  all’indifferenza  dell’Italia e dell’Europa che lasciano morire migliaia di donne, uomini e bambini che fuggono da guerre e carestie. “La barca si è capovolta, la mia famiglia mi è sparita davanti agli occhi senza che potessi fare niente. Li sento ancora chiamarmi, chiedere aiuto”.

La voce di Walid si increspa come il mare che al largo della Grecia ha inghiottito sua moglie, i loro tre bambini e sua sorella con i tre figli. Era il dicembre del 2015. In quella drammatica traversata affogarono quasi tutti, si salvarono solo in sei. Walid non ha avuto più notizie della sua famiglia, ma non vuole perdere la speranza che qualcuno sia sopravvissuto. Un dramma che si consuma ogni giorno nel mare dove navigò Ulisse. Un mare che è ogni giorno di più un cimitero. I morti o dispersi sono più di 27 mila negli ultimi quattro anni, lungo le rotte della migrazione. Un immenso cimitero di morti senza nome. Un immenso monumento al Migrante Ignoto. Ci sono più di ottomila corpi recuperati senza nome, lungo le coste italiane e non sono mai stati identificati. Nel 2017 sono morte nel Mediterraneo oltre tremila persone e almeno il doppio, se non il triplo, non è arrivato nemmeno a tentare la traversata, morendo di fame, di sete, di violenze e di soprusi di ogni tipo, durante il viaggio. Chi affronta la traversata del deserto, rimane spesso vittima dei trafficanti senza scrupoli, scafisti e reti criminali, soprattutto in Libia, dove gli abusi nei confronti delle donne sono atroci.

Le prigionì libiche, veri e propri lager a cielo aperto, camuffati da centri di accoglienza, finanziati prima dal governo Renzi-Gentiloni con gli accordi di Minniti, poi reiterati dal governo Di Maio-Salvini che hanno notevolmente peggiorato la situazione dei migranti. Un vero dramma umanitario. Bakari Jamada, venti anni, originario del Gambia, racconta, tremando, del suo inferno nella traversata d’Africa verso il Mediterraneo. Una odissea durata due anni attraverso il Senegal, Mali, Burkina Faso e Niger. “Sono stato rapito e venduto per 250 dinari, non so nemmeno quanto sia in euro. Rinchiuso in cella a Tripoli, dormivo per terra tra gli escrementi e bevevo acqua di scolo. Mi prendevano e mi torturavano per farmi chiamare a casa, per chiedere alla mia famiglia di mandare soldi. Facevano così con tutti. Le donne le violentavano ripetutamente. Ci pestavano fino a farci perdere i sensi”. Le prigioni libiche sono un inferno. Un inferno legalizzato dagli accordi con l’Italia e l’Europa. Le prigioni libiche sono la vergogna dei governi che si succedono confermando quella vergogna umanitaria, tra il silenzio colpevole dei cittadini che applaudono le politiche dei respingimenti.

di Claudio Caldarelli

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