La vita di Anna Cherchi Ferrari nel campo di concentramento di Schönefeld.

Anna Cherchi Ferrari era nata a Torino, dove aveva trascorso la prima parte della sua vita in una cascina, nel comune di Loazzolo. E’ il gennaio del 1944 quando la cascina, diventata un centro per militari allo sbando e un punto di riferimento per i partigiani, viene bruciata dai nazifascisti. La giovane Anna, ventenne, catturata, riesce in un primo momento a fuggire, raggiungendo il fratello e entrando nella 6° Brigata Belbo, sotto il falso nome di Maria Bruni.
La sua libertà, però, non durò molto. Nel marzo del 1944, durante un rastrellamento, preferì farsi catturare dai nazifascisti per permettere ad un gruppo di partigiani di fuggire. Quel momento segnerà l’inizio di un lungo periodo di tormenti, torture, lavoro durissimo, che porteranno la giovane donna a perdere, nell’arco di alcuni mesi, quasi la metà del suo peso.

Lei stessa, infatti, ricorda, in un suo racconto, di essere scesa da sessantotto chilogrammi a trentanove, tra il luglio del ’44 e il 28 aprile del ’45,* per i maltrattamenti, il poco cibo, il lavoro continuato di 12 ore al giorno, tutti i giorni, escluso i festivi, nel periodo in cui aveva iniziato a lavorare nella industria militare tedesca di Schönefeld, un sottocampo di Ravensbrück, feroce campo di concentramento. Pochi mesi, meno di un anno, per trasformare una fiorente donna, quasi nella sua ombra.

In quel campo di concentramento di Schönefeld, se il senso umano avesse prevalso, i festivi avrebbero potuto rappresentare un momento di pausa tra tanta fatica, ma invece si trattava di giorni dedicati alle punizioni collettive. E la scelta del tipo di sofferenza e la causa della punizione potevano variare ogni volta. L’importante era raggiungere lo scopo finale di fiaccare, nel corpo e nello spirito, tutte quelle giovani, destinate allo sfruttamento nell’industria bellica.
L’impossibilità di pulirsi, di lavare in modo adeguato l’abbigliamento, la stanchezza accumulata, erano tutte ragioni che avrebbero potuto spingere tutte quelle giovani a trascurarsi, a lasciarsi andare, a perdere quel senso di dignità personale che segna solitamente il confine verso la fine, verso l’oblio di sè. La cura della persona, il lavare il proprio vestito, anche se solo una volta a settimana, mantenere il senso della propria dignità, aiutò, chi riuscì a non perdersi d’animo, a sopravvivere all’inferno.

All’interno dell’industria il numero attribuito a Anna Cherchi Ferrari fu il 1721.
Era la numero 1721 di oltre 4500 donne deportate in quel campo come forza lavoro.

Un lavoro durissimo, condotto con un abbigliamento che non le proteggeva dal freddo, a piedi nudi, chiusi in zoccoli di legno che, certamente, non servivano a difenderle dalle intemperie. In quell’arco di tempo Anna subì anche una tortura durissima: sotto il nome di esperimento le estrassero 15 denti, senza anestesia, rimandandola sul posto di lavoro subito dopo. Non occorre commentare la durezza del trattamento. E’ sufficiente immaginarlo.
Il lavoro in fabbrica veniva svolto, a gruppi, sotto lo sguardo di un Meister, di solito un uomo inabile alla guerra, che non parlava nessuna lingua diversa dal tedesco. Un uomo che pretendeva di essere compreso nel proprio idioma da gente che non capiva una singola parola di tedesco. E sul lavoro chi non capiva veniva punito. Nel ricordo di Anna è rimasto il suono di una parola mal compresa, forse martello o battere in tedesco, che un Meister, per farsi comprendere, le mostrò di fatto, trascinandola con rabbia, fino a farle sbattere con forza il naso contro l’attrezzo da usare per lo svolgimento del lavoro.

E non era nemmeno un campo di concentramento dei peggiori. Lì non c’era il forno crematorio.

Dopo essere stata liberata dal campo Anna Cherchi Ferrari ha voluto far conoscere la sua storia, quel periodo di vita in cui ha incontrato l’uomo fatto bestia. E ne ha parlato finchè ha potuto, fino al 2006, ultimo anno della sua vita.

di Patrizia Vindigni

• dati tratti da un’intervista per la Tavola rotonda La Circolare Pohl, 21 febbraio 1989

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