Rwanda: lutto nazionale di cento giorni per commemorare il genocidio

Tra l’aprile e il luglio del 1994 più di 800 mila persone sono state massacrate nel cuore dell’Africa. Dopo il genocidio degli ebrei, un nuovo Olocausto si è consumato silenziosamente in Rwanda, il “Paese dalle mille colline”. A distanza di 25 anni da una delle pagine più buie che i libri di storia potranno mai raccontare, il Rwanda commemora quei 100 giorni di follia proclamando un lutto nazionale di egual durata, dal 7 aprile al 4 luglio.
È la sera del 6 aprile del 1994 quando l’aereo in cui viaggiano il Presidente del Rwanda Habyarimana e il suo omologo burundese Ntaryamira viene abbattuto da un razzo in fase di atterraggio all’aeroporto di Kigali. L’attentato è il segnale d’inizio della carneficina contro gli avversari del regime, composti in prevalenza da Tutsi. Dal giorno seguente, i posti di blocco sbarrano le strade dell’intero Paese e ha inizio lo sterminio.
Per tre lunghi mesi le strade del Paese si riempiono di sangue. L’80% della popolazione Tutsi viene sterminata ad opera della maggioranza Hutu, in modo particolarmente cruento: fatta a pezzi a colpi di machete, mutilata con bastoni chiodati, abbandonata con i tendini di Achille recisi, affogata. Per non parlare dello stupro sistematico e su vasta scala delle donne tutsi, deliberatamente contagiate da assassini affetti dal virus dell’HIV.

Una follia collettiva, resa possibile anche grazie ad un uso strategico dei mezzi di informazione nelle mani degli Hutu, di Radio Télévision Mille Collines in particolare (RTML), che inocula per mesi il terribile veleno dell’ideologia razzista, dipingendo i Tutsi come “scarafaggi” da eliminare. Nel 2000, primo caso nella storia, persino il Tribunale Penale Internazionale per i crimini in Rwanda ha allestito un processo contro i mass media rwandesi, accusati di aver contribuito alla messa in atto del genocidio.
Di fronte a un dramma di tale portata, consumatosi nell’arco di tre mesi in questo piccolo Stato dell’Africa, gli attori internazionali hanno dato prova di sconcertante disimpegno e disinteresse, e l’Onu ha mantenuto un contingente di soli 300 uomini, insufficienti a frenare i massacri. Gli Stati Uniti, massima potenza politica e militare, risentiva ancora in quegli anni del drammatico fallimento dell’operazione Restore Hope in Somalia, e si rifiutò d’impantanarsi nuovamente in un nuovo conflitto africano.

In occasione del decennale del genocidio è arrivato il mea culpa dell’Onu: «La comunità internazionale ha abbandonato il Rwanda alla sua sorte e questo ci lascerà per sempre i più amari rimpianti e la più profonda tristezza. Se avesse reagito velocemente e con determinazione, avrebbe potuto impedire la maggior parte dei massacri. Ma la volontà politica era assente. Anche le truppe lo erano», ha dichiarò il 7 aprile 2004 l’allora segretario generale, Kofi Annan.
Anche Parigi ha avuto un ruolo molto controverso nella vicenda ed è stata accusata di non aver fermato la strage. La Francia di Mitterand ha senz’altro scritto une delle pagine più imbarazzanti di politica estera in Rwanda, cercando di fare della cooperazione con il regime genocidario uno strumento politico di espansione nella Regione dei Grandi Laghi. Proprio in questi giorni il Presidente Macron, al fine di fare luce sulle responsabilità della Francia nella tragedia, ha nominato una commissione di storici e ricercatori, che avrà accesso a tutti gli archivi francesi del Rwanda tra il 1990 e il 1994.

È passato un quarto di secolo e in Rwanda le ferite sono ancora aperte. Tutte le famiglie sono state toccate dalla tragedia e per i sopravvissuti la commemorazione è sempre una dura prova, seppur la creazione di Tribunali Popolari, in cui gli imputati confessano e chiedono perdono, stia permettendo una convivenza pacifica tra carnefici e vittime.
Per fortuna il contesto socio-economico del Paese è notevolmente cambiato. Il governo autoritario di Paul Kagame è riuscito a trasformare il Rwanda da emblema di povertà a modello di sviluppo per l’intero continente africano, anche grazie agli aiuti economici che sono piovuti generosi da parte della comunità internazionale, che ha sentito di dover riscattare il disimpegno manifestato in occasione del genocidio.

Di certo i fantasmi non potranno mai essere scacciati, Kigali resta pur sempre il centro di un Paese in via di sviluppo, ma il vasto piano di governo che tenta la via della riconciliazione nazionale con ogni mezzo è senz’altro lodevole.

I cento giorni di lutto nazionale sono cominciati e si protrarranno sino al 4 luglio, giorno di festa nazionale per il Paese. Che possano essere anche per noi cento giorni di riflessione e compartecipazione del dolore di una nazione intera.

di Vittoria Failla

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