Il presidente Morales costretto alla fuga dal suo paese, la Bolivia

L’azione violenta che ha portato alla sostituzione del presidente boliviano Evo Morales, il primo indios mai salito alla presidenza in un paese latinoamericano è, in tutta evidenza, un colpo di Stato annunciato e preparato da tempo.
Secondo quanto denunciato da Noam Chomsky e dell’analista Trip Prashad, infatti, da più di un decennio il centro operativo dell’ambasciata americana a La Paz era al lavoro su due scenari. Entrambi prevedevano il ritorno al potere dell’oligarchia bianca e razzista e l’allontanamento di Evo Morales e del Movimento al socialismo (Mas). Due le possibilità: il golpe o l’assassinio del Presidente.
Niente di nuovo per la CIA che ha sostenuto analoghe azioni in Bolivia già nel 1952, 1964, 1970 e 1980.
Certo è, però, che Morales, ritenendosi indispensabile, ha offerto ai suoi oppositori l’occasione per cui tanto avevano lavorato. L’ex presidente, infatti, non è senza colpe. Tanto per cominciare, nel settembre 2015, il parlamento controllato dal Mas ha approvato una revisione costituzionale volta ad eliminare il divieto di rielezione dopo due mandati presidenziali. Limite previsto dalla Costituzione del 2009 promulgata dallo stesso Morales. Dopo che la revisione, sottoposta a referendum nel 2016, è stata bocciata dagli elettori, un gruppo di deputati del Mas ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale perché quel limite, secondo i ricorrenti, rappresentava una violazione dei diritti fondamentali. La Corte ha accolto il ricorso e Morales si è nuovamente presentato alle elezioni. Ma questi passaggi hanno fortemente indebolito la sua figura.
Un’occasione da non perdere per la destra bianca e reazionaria.
Operativamente il colpo di stato contro Morales inizia con le elezioni generali di domenica 20 ottobre. Già lunedì 21, dopo l’annuncio dei risultati provvisori che vedevano Morales in vantaggio su Carlos Mesa – presidente della Bolivia nel periodo 2003-2005 – sono iniziati gli scontri tra oppositori e sostenitori del presidente a La Paz e a El Alto.
Il 25 ottobre, quando sono stati resi noti i risultati finali che ufficializzavano la rielezione al primo turno, la furia dei sostenitori dell’opposizione si è scatenata in diverse regioni del paese soprattutto contro la popolazione indigena e i funzionari statali. Dopo vani appelli alla pacificazione, il 31 ottobre Morales chiede all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) una revisione del conteggio elettorale. L’opposizione osteggia il riconteggio e il 4 novembre Mesa chiede direttamente nuove elezioni.
Intanto nel paese la tensione continua a salire e si moltiplicano gli attacchi di esponenti dell’opposizione contro le comunità indigene, vittime di saccheggi e incendi. I manifestanti fanno esplodere la casa privata del presidente, quelle di alcuni dei principali leader del MAS e umiliano la sindaca di Vinto, Patricia Arce, trascinandola per le strade della città dopo averla rasata e ricoperta di vernice.
Anche il Palazzo presidenziale viene assaltato. Guida l’azione, al grido di “Dio è con noi”, Fernando Camacho – un affarista legato alle attività energetiche, uomo forte dell’opposizione a capo dell’ala dura dei golpisti – che invita l’esercito e la polizia a “schierarsi con il popolo”.
Il 5 novembre la polizia si rivolta contro il governo centrale e il giorno successivo anche l’esercito, con una dichiarazione del comandante generale delle forze armate boliviane Williams Kaliman, abbandona Morales.
Mercoledì 9 novembre il presidente nel tentativo estremo di sboccare la crisi e difendere i risultati ottenuti in campo economico, politico, culturale ed etnico, invita l’opposizione al dialogo. Ma è proprio in quei risultati – nell’opzione che il governo socialista ha fatto a favore dei poveri, dei contadini e degli indigeni – che va cercata la ragione del colpo di Stato.
Con l’abbandono del campo da parte della polizia, l’escalation sovversiva contro lo stato costituzionale raggiunge il suo apice. Si moltiplicano gli atti di vandalismo, gli scontri e le rapine ma Kaliman dichiara che l’esercito non si “scontrerà mai con il popolo”. Salvo far scattare la repressione contro i sostenitori di Morales.
Il terreno è pronto per la fase conclusiva del colpo di stato.
Giovedì 10, con l’intento di evitare un bagno di sangue, il presidente Evo Morales e il suo vice Alvaro García Lineras si dimettono. Lo stesso giorno Morales riconosce il rapporto OSA che denuncia presunte irregolarità, convoca nuove elezioni presidenziali e annuncia la sostituzione dei membri del Tribunale elettorale con elementi dell’opposizione. I golpisti però, nonostante solo qualche giorno avessero avanzato la richiesta di nuove elezioni, rifiutano l’offerta di Morales.
Il presidente è costretto a lasciare la Bolivia e a rifugiarsi in Messico, paese che gli ha garantito asilo politico. Da qui si rivolge al popolo bolivariano, per rassicurarlo sulla sua volontà di tornare con “più forza ed energia”.
A questo punto, seguendo la via costituzionale, il Parlamento avrebbe dovuto votare sulla rinuncia di Morales e quella di García Linera e dare il via a un governo provvisorio incaricato di convocare nuove elezioni. Invece elegge, senza quorum, la senatrice dell’opposizione Jeanine Anez a presidente ad interim.

Con quest’atto la Bolivia, il paese latinoamericano che ha subito il maggior numero di colpi di stato, precipita definitivamente in un periodo d’instabilità e di odio che sembrava relegato nel passato.
E scenari inquietanti si aprono per tutto il continente.

di Enrico Ceci

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