L’America del Sud scivola in un groviglio di povertà e repressione

Proteste popolari, scontri, repressione, coprifuoco e violenza. Una nuova crisi scuote l’America del Sud, dove sembrano tornare i fantasmi di un passato che si voleva superato.

Nel corso del primo decennio del nuovo millennio, infatti, dopo anni che avevano visto l’allargarsi della forbice sociale tra le élite e la maggioranza povera della popolazione, in molti paesi sudamericani si erano imposte politiche anti-imperialiste e anti-neoliberiste.

Un nuovo corso di “sinistra” che non è riuscito a costituire un fronte unitario perché le proposte politiche, tutte idealmente tese verso una maggiore giustizia sociale, si sono manifestate in forme diverse. Certamente l’esperienza del Venezuela chavista o della Bolivia di Morales erano molto lontane da quella brasiliana di Lula e Dilma Roussef o quella cilena di Michelle Bachelet.

Al di là dei diversi modelli adottati, i fatti di questi mesi rivelano che, quantomeno, il successo di queste politiche è stato parziale e limitato.

È vero che in alcuni paesi le classi sociali più povere hanno visto migliorate le loro condizioni di vita, che la qualità dei servizi sanitari ed educativi è cresciuta e che sono stati abbattuti storici steccati socio-razziali. Occorreva, però, un passaggio successivo che è mancato. Le politiche di tipo assistenziale, alimentate esclusivamente dal commercio delle riserve petrolifere e minerarie, sono insostenibili sul lungo periodo e, soprattutto, sono soggette agli andamenti dei mercati. In questi anni si sarebbe dovuto dar vita ad un modello economico più complesso sul quale poggiare le basi di politiche di integrazione e crescita. Questa seconda fase non si è mai avviata anche a causa del mancato coinvolgimento delle classi medie che, gradualmente, si sono spostate dalla parte delle opposizioni. E’ stato questo accumularsi di ritardi strutturali a far esplodere i deficit di bilancio e a innescare processi inflazionistici, alimentati soprattutto dal populismo fiscale. A peggiorare il quadro, la corruzione diffusa ad ogni livello dell’organizzazione statale.

E così i Paesi dell’America Latina, uno dopo l’altro, sono di nuovo scivolati in un groviglio di povertà e repressione.

In questo nuovo quadro, non bisogna mai sottovalutare il ruolo degli Stati Uniti d’America perché la situazione politica dell’America Latina ruota costantemente intorno a due assi: l’inaccettabile divario tra le ristrette classi privilegiate e la gran parte della popolazione e il ruolo del Grande Vicino.

Nel recente passato la “dottrina Obama” si riprometteva di superare le tradizionali politiche statunitensi nei confronti del continente latinoamericano. Sostanzialmente, tentava una inedita politica di non interferenza. Con Trump si è prepotentemente tornati alla più classica dottrina imperialista: le questioni latinoamericane, a partire dai processi migratori, vengono direttamente collegate alle questioni interne degli USA.

Da qui le sanzioni al Venezuela, le minacce al Messico, il taglio degli aiuti ai paesi centroamericani, lo strangolamento di Cuba, il sostegno al golpe in Bolivia ma anche l’appoggio al presidente brasiliano Bolsonaro.

Tutte scelte che cercano l’interesse immediato degli Stati Uniti e che, soprattutto, sono tese ad evitare ogni possibile processo di unità politica e di integrazione economica in un’area che Washinton è tornata a percepire come il suo “cortile di casa”.

di Enrico Ceci

 

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