Aumenta il costo del biglietto della metro e scoppia la protesta cilena

La protesta cilena, scoppiata con l’aumento del biglietto della metro, è la protesta di un popolo privato da trent’anni dei più elementari diritti sociali.

Chi, tra la classe dirigente cilena, confida che l’imminente arrivo dell’estate e delle festività natalizie abbia spento la voce del popolo, la domanda di una nuova agenda sociale e l’avvio di un processo costituzionale che abbatta la costituzione pinochetista – sostanzialmente ancora in vigore – si sta illudendo.

Una costituzione che, fedele ai dettami dei Chicago boys,  “blinda” il modello economico neo-liberista  fondato sul laissez-faire, sul libero mercato e sul conservatorismo fiscale. Dopo la sua entrata in vigore, i Cileni hanno assistito al taglio del 50% della spesa pubblica – con il conseguente smantellamento dell’istruzione obbligatoria e della sanità pubblica – all’esplosione del tasso di disoccupazione passato dal 4,3 al 22%, al crollo dei salari del 40% e al raddoppio della popolazione sotto la soglia di povertà. Da allora in Cile, scuola, sanità e previdenza sono nelle mani dei privati.

Oggi, secondo la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi, il 50% della popolazione cilena possiede solo il 2,1% della ricchezza nazionale, mentre l’1% più ricco del Paese detiene ben il 26,5%.

Nel paese che (secondo la classifica della Banca mondiale) è il secondo stato più diseguale al mondo, preceduto soltanto dal Qatar, al centro della protesta popolare c’è la richiesta di una maggiore equità sociale e di una diversa politica ridistributiva.

La maggioranza del popolo cileno – povera e oppressa dal debito privato contratto per accedere a diritti fondamentali come istruzione, salute e previdenza – chiede misure urgenti su salario minimo, pensioni, assistenza sanitaria, diritto all’istruzione. Una nuova agenda sociale, quindi, che accompagni il processo verso una radicale modifica costituzionale.

L’accordo per la pace sociale e per una nuova Costituzione dotata di un’ampia legittimità sociale, firmato da nove partiti politici il 15 novembre scorso, è però molto fragile.

L’Unione Democratica Indipendente di destra (UDI), il partito schierato a difesa  dell’attuale Costituzione, ha impedito che il parlamento approvasse regole a garanzia di un percorso costituzionale attento alla parità di genere, ai diritti dei popoli nativi e la rappresentanza di membri indipendenti nella composizione dell’Assemblea Costituzionale.

E anche riguardo all’agenda sociale, non si registrano progressi sostanziali. Mentre il governo continua nella sua strategia di criminalizzazione della protesta e tenta di indirizzare l’agenda politica verso questioni legate alla sicurezza, l’opposizione si concentra essenzialmente sulla questione costituzionale.

Entrambe giocano con il fuoco. Certamente la maggioranza della popolazione avverte la necessità di una profonda modifica costituzionale ma i tempi del cambiamento, e i benefici apportati, saranno a lungo termine mentre la situazione economica e sociale impone soluzioni immediate.

La frustrazione delle attese sociali che il movimento ha conquistato con la lotta – specie in previsione di un 2020 durante il quale la situazione economica è data in peggioramento con disoccupazione e costo della vita in aumento – potrebbe spianare una prateria alle posizioni populiste.

Se l’accordo raggiunto non dovesse reggere, tutti gli attuali attori politici e sociali saranno inevitabilmente spazzati via.

La mobilitazione sociale ha avanzato le sue richieste. Ora sta alla classe dirigente dare le giuste risposte.

di Enrico Ceci