Primo censimento delle statue femminili: poche donne, anonime o svestite

Siamo al gender gap dei monumenti. In Italia abbiamo appena 148 statue femminili, quasi tutte di madri oppure mogli, a Milano ne troviamo solo due, a Torino nessuna, a Roma si contano sulle dita delle mani. Dunque le statue pubbliche dedicate alle donne, escludendo allegorie o figure di Maria, sono veramente poche.

Tanto che l’associazione di storici dell’arte “Mi riconosci” è riuscita a mappare incrociando ricerche e segnalazioni, «un numero che si avvicina alla totalità di quelle esistenti», spiegano le curatrici. Parliamo di busti, monumenti, fontane installate sulle piazze (solo il 36%), nei giardini, agli incroci delle strade. Figure per lo più anonime e spesso lontane, anche nella rappresentazione, dalla realtà.

Per dare un’idea della proporzione, rispetto ai monumenti maschili che celebrano condottieri e statisti, scrittori e politici, caduti e musicisti, poeti e filosofi, basta entrare nella capitale e salire sopra al Pincio: il conto finisce 3 (Grazia Deledda, Santa Caterina da Siena e Vittoria Colonna) a 226.
Tra tutti i gender gap, non ultimo quello toponomastico che conta solo 8-9 vie su 100 intitolate a donne, si aggiunge pure quello monumentale. Ma non è solo il numero a segnare la differenza.

Abbondano Madonne, Vittorie, Glorie, ma sono poche, anzi pochissime le donne realmente vissute o i personaggi letterari: c’è qualche Maria Montessori, Elena di Savoia, Anita Garibaldi, Cristina Trivulzio di Belgiojoso; mancano Elsa Morante o Rita Levi Montalcini, Nilde Iotti o Tina Anselmi. Quasi la metà di quelle realizzate sono invece figure anonime collettive: una carrellata di madri, mogli di, lavandaie, mondine, emigrate o pure partigiane, genericamente intese.

La maggioranza dedite a lavori di cura o di accoglienza, professioni di fatica, votate al sacrificio, allattanti con bambini in braccio, accanto ai mariti o in attesa del loro ritorno, mentre nessuno per ora ricorda impiegate o scienziate, nell’attesa della prossima statua di Margherita Hack che spunterà a Milano (dove le maschili sono 125).

«Lo spazio pubblico non può essere considerato neutro – spiega Ludovica Piazzi, storica dell’arte e promotrice dell’indagine per “Mi riconosci” – e ad oggi è uno spazio androcentrico come conferma non solo l’assenza di donne ma anche l’enorme sproporzione tra autrici e autori dei monumenti censiti: tra le 120 opere di certa attribuzione solo il 5% è stato realizzato da donne, un altro 5% vede la collaborazione tra autori e autrici mentre il restante 90% è a firma maschile».

E maschile, secondo le curatrici, è pure lo sguardo.

«Questo è il monumento della Vittoria, andavamo a vederlo tutti i giorni… e io me lo sognavo anche la notte», recitava Titta nell’Amarcord di Federico Fellini in adorazione delle rotondità della statua ai Caduti in piazza Ferrari a Rimini. Come la spigolatrice di Sapri, che di recente ha scatenato molte polemiche in quanto bollata come sessista, con i glutei definiti appena velati da un’impalpabile veste, c’è poi la lavandaia di Bologna, interamente nuda, inginocchiata e immersa in una tinozza, simbolo di purificazione che negli anni ha però suscitato numerose polemiche, o quella di Massa, chiamata con sprezzo dell’opera “La puppona”, con la veste calata sotto al seno. O Rosalia Montmasson, unica donna della spedizione dei Mille, ritratta a Ribera (Agrigento) accanto al marito Francesco Crispi: in abito lui, in sottoveste, improbabile per l’epoca e ogni dettaglio fisico in evidenza, lei.

E ancora, ad Acquapendente c’è una statua dedicata a due giornaliste assassinate, Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, ritratte una di fianco all’altra completamente nude. «Simbolo di onestà e purezza» nelle intenzioni dell’autore. Ma, sottolineano le curatrici del dossier, «in questo come in molti altri casi la figura femminile è stereotipata: le statue hanno atteggiamenti sensuali o sono connotate da dettagli leziosi che nulla c’entrano con il loro ruolo, aspetti che vanno a sminuire i soggetti ritratti. Un conto è una figura allegorica, altro è un personaggio realmente esistito: c’è una sessualizzazione del corpo della donna che può risultare offensiva. La storia dell’arte è costellata di nudi, non si tratta di censurare, ma di dare dignità alle donne scelte per essere ricordate nello spazio pubblico».

Ancora una volta, persino in questo campo, la donna viene rappresentata poco perché poca importanza viene attribuita alla donna in quanto tale ma anche nel censimento delle statue femminili in Italia, grazie a questo dossier, si scopre che sempre il corpo femminile viene rappresentato nudo o con succinti abiti che ne delineano le forme.

La polemica nata attorno all’opera della Spigolatrice di Sapri la dice lunga.

Lo scultore, Emanuele Stifano, ha difeso la propria opera, spiegando che l’idea di evidenziare le forme della Spigolatrice è nata con l’intento di “rappresentare un ideale di donna, fierezza e risveglio”. Si potrebbe commentare a lungo questa sua apologia, prima di tutto per aver voluto rappresentare un “ideale di donna” invece di una donna reale.

La rappresentazione femminile in Italia soffre di un problema: è raccontata da uno sguardo maschile che il più delle volte ne sessualizza il corpo e gli ideali. Una donna forte, fiera e che ha appena risvegliato la propria coscienza sociale e politica, come Stifano dice di aver rappresentato, non ha bisogno certo di mostrare il fondoschiena sotto un abito trasparente. Qual è il messaggio? Non certo la forza e la fierezza. Tutto questo suona bizzarro, sessista e comico allo stesso tempo. E stiamo parlando di una statua inaugurata il 25 settembre di questo anno.

Quando non si può neanche chiamare in causa i tempi andati, la diversa concezione della donna, una cultura diversa…

Stiamo parlando di un oggi sempre troppo vicino ad un lontano ieri.

di Stefania Lastoria

   

 

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