Il caso Spotlight

Una lezione di giornalismo investigativo e grande cinema civile

Nella recente notte degli Oscar, Il caso Spotlight trionfa come Miglior Film. Vince davanti a Revenant – Redivivo di Alejandro Iñárritu, che dal punto di vista della forma cinematografica gli è sicuramente superiore e che si aggiudica la statuetta per la Miglior Regia, oltre a quella per il Migliore Attore Protagonista a Leonardo Di Caprio. Il film di Thomas McCarty vince, però, perché unisce in sé tre aspetti cruciali della nostra contemporaneità. Essi sono: uno scandalo di enormi proporzioni sociali, la tenacia di una redazione giornalistica nel denunciarlo, un’esplicita dichiarazione del cinema a non tradire mai questa sua vocazione all’impegno civile.

Ricordiamo che gli Oscar sono un riconoscimento che tutte le categorie professionali del cinema americano (dagli attori agli elettricisti, macchinisti, truccatori, costumisti, ecc.) danno a film americani. L’unica eccezione è riservata al Miglior Film Straniero, vinto in questa edizione del 2016 da Il figlio di Saul, dell’ungherese László Nemes, sicuramente il film più importante, destinato a segnare una pagina cruciale nella storia del cinema (vedi Stampa Critica 02/2016).

Siccome la società americana continua a essere attraversata da letali scandali di potere – dall’economia al controllo telefonico ed elettronico illegale su tutti i cittadini –, ecco che il cinema porta sul grande schermo, ossia alla conoscenza pubblica di massa, una vicenda del 2001, riguardante gli abusi sessuali perpetrati dal clero cattolico statunitense contro bambini affidati alle sue scuole e parrocchie. Uno scandalo che ha avuto come centro la città di Boston ma che, attraverso il suo Vescovato, si è diffusa in tutta la nazione e anche fuori i suoi confini.

Il quotidiano locale, il Boston Globe, attraverso il suo nuovo direttore Marty Baron, decide di rompere il muro di omertà e silenzio imposto a tutta la città dal Vescovo John Law. Affida l’indagine a tre uomini e una donna che costituiscono la redazione investigativa che va sotto il nome di Spotlight. Se il quartetto prende in mano un’inchiesta si può star certi che non molla l’osso finché non ha messo in fila tutti i pezzi. E quando va in pagina è sicuro che tutto quanto pubblicato è comprovato fino al più minuscolo dettaglio. I fatti denunciati hanno dato il via a una serie di procedimenti legali contro la chiesa cattolica americana, costretta a risarcire le vittime con enormi cifre in denaro. Non solo.  Essa si è ripercossa anche in altri paesi, poiché i prelati abusanti venivano silenziosamente trasferiti di parrocchia in parrocchia, e anche all’estero, dove continuavano impunemente i loro comportamenti, estendendo geometricamente e infittendo la rete degli abusi. Il vescovo di Boston John Law, invece di essere sospeso, è stato trasferito in una delle basiliche storiche più importanti del mondo: quella di Santa Maria Maggiore a Roma.

Anche grazie a inchieste come questa oggi nella Chiesa matura una nuova consapevolezza, come dimostra la condanna senza riserve espressa da Papa Francesco che ha implorato il perdono agli abusati, alle loro famiglie, a tutti i fedeli. Solo che non basta prevedere la loro condanna e detenzione dei colpevoli dentro le Mura Vaticane. Essi vanno affidati al normale corso della giustizia penale dei paesi dove hanno consumato i loro gravi reati. Sarebbe certamente meno di quanto previsto da Gesù nel Vangelo: “Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare” (Matteo – 18, 6).

La vicenda ricostruita dal film non ha solo il valore di un documento storico portato alla conoscenza del grande pubblico internazionale. Nell’epoca dei nuovi social media elettronici, la carta stampata sembra destinata a un inevitabile tramonto. Con essa, però, rischia di essere archiviato pure l’intero metodo del giornalismo investigativo di classe: l’unico in grado di controllare il potere e denunciarne gli abusi. Se decade questa funzione, decade anche quella del grande cinema di impegno civile. Quest’ultimo, infatti, ha scritto le sue più belle pagine, traendole proprio dalle grandi inchieste giornalistiche che hanno segnato la storia americana. Da Barriera invisibile (1947) a L’asso nella manica (1951), Quando la città dorme (1956), Tutti gli uomini del presidente (1976), fino a Sindrome Cinese (1979), Insider – Dietro la verità (1999) e Good Night, and Good Luck (2005), il cinema civile americano ha sempre camminato insieme al più importante giornalismo investigativo della nazione. Ora questo legame rischia di spezzarsi e forse per questo, con più forza, il cinema mette sullo schermo gli ultimi capitoli di questa storia, come Truth – Il prezzo della libertà di James Varderblit, con Cate Blanchet e Robert Redford, ora nelle sale italiane.

Abbiamo parlato del giornalismo d’inchiesta e del cinema civile – americano. Sì, perché in Italia non esiste né l’uno né l’altro: cardinali, vescovi e preti potevano tranquillamente continuare a benedire i loro amati chirichetti.

di Riccardo Tavani

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