Paulo Freire: La pedagogia degli oppressi

“Questo saggio (…) è dedicato a color che sono capaci di posizioni radicali”.

Così La pedagogia degli oppressi chiarisce subito la posizione decisa del pedagogista Paulo Freire, un atteggiamento schierato dalla parte dei contadini brasiliani, ma più in generale degli oppressi, schiacciati da un sistema alienante e ingiusto.

Nel libro Freire formula le basi teoriche della propria pedagogia critica, portata avanti in nome della libertà, della vera democrazia, dell’affermazione dei diritti sociali e politici, contro qualsiasi forma di oppressione e sfruttamento.

Il problema che l’autore riscontra nelle società contemporanee è quello dell’umanizzazione/disumanizzazione degli uomini, che nel contesto in cui vive tenta di contrastare attraverso un programma di alfabetizzazione degli adulti, come coscientizzazione e quindi come liberazione.

Il libro negli anni Settanta si diffuse in diversi paesi e divenne un simbolo che generò entusiasmi e dure critiche, in Europa come negli Stati Uniti o in America latina, diventando un punto di riferimento importante per i tanti movimenti di liberazione dei popoli e per chi era impegnato in ambito sociale, politico, educativo.

Il testo, infatti, è estremamente rappresentativo della sua epoca: i cambiamenti sociali, economici, tecnologici, culturali, politici messi in atto dalla globalizzazione e dalla politica del mercato accentuano la competizione a livello mondiale e la nascita di nuovi poveri, accomunati nell’omologazione di stili di vita e dalla massificazione dilagante, che umilia l’unicità individuale e gli interessi culturali: “L’invasione culturale è la penetrazione degli invasori nel contesto culturale degli invasi, senza rispetto verso le potenzialità dell’essere, che essa condiziona, quando essi impongono la loro visione del mondo e frenano la creatività, inibendo l’espansione degli invasi”[1].

Si modificano quindi anche i rapporti tra i soggetti, attraverso processi di socializzazione globalizzanti, come si trasforma anche il rapporto degli uomini con l’ambiente.

C’è una larga parte della popolazione mondiale in difficoltà economica (e quindi alienante da un punto di vista umano) ma allo stesso tempo si affermano anche nuovi bisogni, legati alla domanda di beni apparentemente necessari per emanciparsi.

Una pratica, questa, che rispecchia le dinamiche realizzate dagli oppressori: “Questo clima crea negli oppressori una coscienza fortemente possessiva. (…) Quindi tendono a trasformare tutto ciò che li circonda in oggetti del loro dominio: la terra, i beni, la produzione, la creazione degli uomini, gli uomini stessi, il tempo in cui gli uomini sono situati, tutto si riduce a oggetto del loro comando. (…) Viene di lì la loro concezione strettamente materialista dell’esistenza. Il denaro è la misura di tutte le cose. E il lucro è l’obiettivo principale. (…) “Essere” per loro è “avere”[2]  .

Inoltre, gli oppressori hanno la necessità, che rispecchia il concetto di emarginazione e di infirmitas e caritas del Medioevo, che l’ingiustizia perduri per poter far vivere la loro falsa “generosità”: “Per loro, purtroppo, soltanto essi stessi sono persone umane. Gli altri sono quasi delle “cose”. Per loro c’è solo un diritto: il loro diritto a vivere in pace, contro il diritto degli oppressi a sopravvivere; essi non arrivano a riconoscerlo, ma soltanto ad ammetterlo. E tutto questo perchè, in sostanza, è necessario che gli oppressi esistano, affinchè essi possano esistere ed essere “generosi”[3].

Freire cita anche gli antichi romani, che secondo lui avevano già capito come conquistare le masse con la logica del panem et circenses.

L’autore pone l’accento sul valore della comunicazione tra soggetti che si trovano ed appartengono a posizione differenti, sottolineando la dimensione politica dell’educazione stessa.

Come sottolineò anche in un altro suo libro, Pedagogia dell’autonomia: “La neutralità dell’educazione è impossibile. Ed è impossibile non perchè lo decidono insegnanti “facinorosi” e “sovversivi”. L’educazione non diventa politica perchè lo decide questo o quell’educatore. Essa è politica”.[4]

Inoltre, l’atto educativo, come anche la relazione tra educatore ed educando ha, al proprio interno, una contraddizione di fondo, che si dovrebbe superare grazie al lavoro educativo stesso: “La ragione di essere dell’educazione liberatrice (…) comporta il superamento della contraddizione educatore/educando, in modo che ambedue divengano contemporaneamente educatori e educandi”[5]. Una co-intenzionalità quindi, in cui educatore e educando, come anche leadership e masse, siano entrambi soggetto.

Infatti, il rapporto educativo è troppo spesso verticale anziché promuovere atteggiamenti non direttivi o di negazione di questa asimmetria.

Ciò porta a quello che Freire chiama educazione “depositaria”: “Ecco l’educazione “depositaria”, in cui l’unico margine di azione che si offre agli educandi è ricevere i depositi, conservarli e metterli in archivio. (…) In questa concezione “depositaria” dell’educazione (…) chi rimane confinato in archivio però sono gli uomini. Archiviati, perchè fuori di una ricerca, fuori dalla prassi, gli uomini non possono “essere”. (…) In questa visione deformata dell’educazione non esiste creatività, non esiste trasformazione, non esiste sapere. Il sapere esiste solo nell’invenzione, nella re-invenzione, nella ricerca inquieta, impaziente, permanente che gli uomini fanno nel mondo e col mondo e con gli altri”[6].

Infatti, la liberazione dallo stato di oppressione si raggiunge attraverso quella che Freire indica come prassi, un insieme di azione e riflessione, l’unica possibilità attraverso cui trasformare il mondo: “La liberazione autentica, che è umanizzazione in processo, non è una cosa che si deposita negli uomini. Non è una parola in più, vuota, creatrice di miti. È una prassi, che comporta azione e riflessione degli uomini sul mondo, per trasformarlo”[7].

E comunque, il processo di liberazione va fatto con il popolo, cercando di capire quali sono i suoi bisogni e le sue aspettative reali, non imponendo la nostra visione del mondo, ma dialogando con lui riguardo la sua e la nostra: “Non posso pensare attraverso gli altri, né per gli altri, né senza gli altri. L’investigazione del pensiero del popolo non può essere fatta senza il popolo, ma con lui, in quanto soggetto del suo pensare”[8].

Altri due punti importanti nella pedagogia di Freire sono per questo il dialogo, che si fa attraverso la parola: “Quando si tenta di penetrare nel dialogo, come fenomeno umano, si scopre qualcosa che si identifica con lui: la parola. (…) Non esiste parola autentica che non sia prassi. Quindi, pronunciare la parola autentica significa trasformare il mondo”[9].

Per l’autore brasiliano l’atteggiamento dialogico si trova alla base dell’educazione. Afferma però, anche, che non può esistere un dialogo senza amore, senza umiltà, senza fede negli uomini, senza speranza e senza un pensiero critico. Ma soprattutto, senza il dialogo “non c’è comunicazione, e senza comunicazione non c’è vera educazione”[10].

L’anti-dialogo, invece, si nutre di slogan, di comunicati e cerca di liberare gli oppressi con questi strumenti che invece li addomesticano, perché non entrano davvero nel problema e non sviluppano una loro riflessione critica: “Significa farli cadere nelle acque morte del populismo e trasformarli in massa da manovra”[11].

L’assunto fondamentale che riguarda la relazione tra oppressi e oppressori è che i primi debbano liberare loro stessi ma anche gli altri, vittime anch’essi della disumanizzazione perché hanno una visione distorta della vocazione ad essere di più: “Ecco il grande compito umanista e storico degli oppressi: liberare sé stessi e i loro oppressori. (…) Solo il potere che nascerà dalla debolezza degli oppressi sarà sufficientemente forte per liberare gli uni e gli altri”[12].

Quindi un’educazione (e una pratica) problematizzante come educazione liberatrice, un atto di conoscenza, che propone agli uomini la situazione in cui vivono come problema, per cercare di fargli prendere coscienza della necessità della loro liberazione, e della capacità che hanno per portarla avanti: “Propone loro la propria situazione come incidenza del loro atto di conoscere, attraverso cui sarà possibile il superamento della percezione magica o “naturale” che eventualmente possano averne. (…) In questo modo, approfondendo la presa di coscienza della situazione, gli uomini se ne “appropriano” in quanto realtà storica, cioè in quanto realtà suscettibile di essere da essi trasformata”[13].

Ma è anche vero che, come gli oppressori hanno bisogno della teoria dell’azione oppressiva per poter opprimere, anche gli oppressi hanno bisogno di una teoria della loro azione.

E Freire afferma che il popolo può sviluppare la capacità di liberazione attraverso l’incontro con una leadership rivoluzionaria (di cui un esempio è Ernesto Che Guevara): “L’oppressore elabora la teoria della sua azione necessariamente senza il popolo, perché è contro di lui. Il popolo a sua volta, schiacciato e oppresso, introiettando l’oppressore, non può da solo costituire la teoria della sua azione liberatrice. Solo nel suo incontro con la leadership rivoluzionaria, nella comunione tra i due, nella prassi di ambedue, si costituisce questa teoria”[14].

Una comunione che provochi una collaborazione, attraverso una azione rivoluzionaria davvero umana: “soggetti che si incontrano per dare un nome al mondo, in vista della sua trasformazione”[15].

Ma c’è bisogno che il popolo riemerga dalla convinzione che non è capace a ragionare in modo giusto, una condizione nella quale sono schiacciati dagli oppressori, e che a forza di sentirlo si convincono di questa falsa verità.

Un concetto che in qualche modo si collega a quello di capacitazione, sostenuto dall’economista e filosofo indiano Amartya Sen, che afferma che il successo di una società va giudicato sulla base delle libertà di cui godono i propri membri, cioè sulla capacità di riuscire a mettere in atto stili di vita alternativi.

La spinta è quella della ricerca dei temi “generatori”, ossia temi di carattere universale che vanno dal generale al particolare, caratteristici e rappresentativi di un’epoca. In questo caso il tema generatore è quello della liberazione che mette in rilievo il suo contrario, quello della dominazione.

Una liberazione per la ricerca del “bene supremo”, citando Aristotele, con la speranza nella “nostra fede negli uomini e nella creazione di un mondo dove sia meno difficile amare”[16].

di Francesca Mara Tosolini Santelli

[1] Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2011, pag. 149.

[2] Ivi, pag. 45.

[3] Ivi, pag. 44.

[4] Paulo Freire, Pedagogia dell’autonomia, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2014, pag. 91.

[5] Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2011, pag. 59.

[6] Ivi, pag. 58.

[7] Ivi, pag. 67.

[8] Ivi, pag. 102.

[9] Ivi, pag. 77.

[10] Ivi, pag. 83.

[11] Ivi, pag. 52.

[12] Ivi, pag. 29.

[13] Ivi, pag. 75.

[14] Ivi, pag. 184.

[15] Ivi, pag. 166.

[16] Ivi, pag. 184.

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