Ariele Vincenti porta sul palco la magia di Ago

Sul palco del Teatro della Presentazione, in zona Torrevecchia a Roma, ci sono solo una scala appoggiata al muro, uno striscione mezzo staccato e una sedia. È la sera del 23 ottobre, il giorno dopo un nuovo DPCM obbligherà i teatri a chiudere. In sala però non lo sa nessuno. Non lo sanno gli oltre cinquanta presenti, tutti nel più rigoroso rispetto delle norme di distanziamento, non lo sanno gli organizzatori, i ragazzi di “Primavalle mica l’ultima”. E non lo sa neanche Ariele Vincenti, che è sul palco con il suo spettacolo “Ago, capitano silenzioso” per raccontare la storia di Agostino Di Bartolomei.

“Ogni volta è come la prima. È un’emozione, diventa quasi un rito, una responsabilità” ci racconta Ariele, che per raccontare la storia di Ago, capitano della Roma campione d’Italia nel ’83, ha viaggiato nel tempo: “Io l’ho visto giocare due volte, con la maglia del Cesena e del Milan, mai con quella della Roma. E non avendolo vissuto dovevo arrivare a un punto di conoscenza che mi permettesse di rispondere a qualsiasi domanda su di lui. Il primo input sono state le sue interviste, in campo”. E lo spettacolo, un monologo di quasi due ore, parte proprio da queste, dalle domande di Giampiero Galeazzi al capitano dei giallorossi. Una su tutte, quella del 1 maggio 1983. La Roma è in testa al campionato e all’Olimpico arriva l’Avellino. Il giornalista si avvicina, col microfono in mano: “Capitano mancano tre giornate, l’equipaggio chiede: andremo in porto o no?”. Agostino risponde senza guardare la telecamera, sicuro: “In porto sicuramente, vediamo di arrivarci col vessillo”.

Bastano le parole e gli sguardi per descrivere Di Bartolomei, basta il modo in cui calciava la palla. Una botta secca, precisa, violenta, pulita. “Ho cercato di lavorare sulla sua eleganza – spiega Ariele – sia come persona che come calciatore. Aveva un portamento, era un modello, era il giocatore perfetto. Era un italiano alla Mastroianni”. Silenzioso, timido, quasi schivo, Di Bartolomei fuori dal campo era tutt’altro. “Per preparare lo spettacolo ho passato mesi a Tor Marancia, il suo quartiere, precisamente al bar dove è cresciuto. Sono stato pomeriggi interi a parlare con la gente, chiunque entrava poteva raccontarti qualcosa su Ago. Il bar è gestito dal figlio di Marcello, citato nello spettacolo, che vedeva Agostino andare al bar da ragazzino. Mi ha indicato il suo tavolo e mi raccontava: «Agostino veniva qua e faceva ridere, ci faceva ammazzare di risate»”.

C’è tanta Roma nello spettacolo di Ariele Vincenti. Ci sono nasoni e sampietrini, lampioni e ponti. C’è Tor Marancia, la buca di Shanghai, il campo dell’OMI, la squadra del dopolavoro dell’Ottica Meccanica Italiana. “Quando racconto una storia, un personaggio, mi serve da pretesto per raccontare cosa lo contornava, andare a indagare le microstorie che ruotavano intorno ad Agostino. Ti immergi nella sua vita, dando risalto anche al contorno di quegli anni, quasi a scattare una fotografia. Il campo dell’OMI, ad esempio, è una storia unica. Quando ero ragazzino andavo a vedere la Libertas San Saba che giocava al campo di Tormarancia e sentivo i boati dello stadio dell’OMI. C’era più gente a vedè loro che ‘a vedè la Lazio. Ci sono tornato a distanza di 30 anni, ora c’è un centro fitness”. Durante lo spettacolo si ride e si piange, come è successo allo spettatore in prima fila, tutto sulla destra, o in fondo alla sala, sperando non si vedesse, quando sul palco si ripeteva la sequenza dei calci di rigore, nella notte in cui la Roma perse la Coppa Campioni. Ago si spara un colpo al cuore esattamente dieci anni dopo quella finale. Era il 30 maggio 1994.

E il monologo inizia proprio da quel giorno, da un bar e da una prima pagina di giornale. Ariele racconta, col suo accento romano genuino, prende per mano lo spettatore e lo porta a spasso con lui, tra le vie di Roma e del passato. Gli prende la mano, ogni tanto lo scuote e ogni tanto lo accarezza. Gli prende la mano, come ha fatto in terza fila, seduta centrale, una ragazza col suo fidanzato. Lui è della Roma ma non ha mai visto giocare Agostino, lei, prima di quella sera, non sapeva neanche chi fosse. Ma in fondo non serviva. Bastava la forza del teatro, delle parole e del silenzio. E bastava la magia di una storia che non ci stuferemo mai di sentirci raccontare.

di Lamberto Rinaldi

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