Campi nomadi: discriminazione razziale del ghetto all’italiana

Lo 0.2% della popolazione del nostro paese è di etnia Rom. Di queste 110,000-170,000 persone, solamente il 20% vive nei cosiddetti campi nomadi. Esperienza unica in Europa, nei campi vivono tra le 20,000 e le 30,000 persone, di cui 10,000 solamente a Roma. Impropriamente detti nomadi, questi luoghi sono di fatto ghetti su base etnica dove vivono in prevalenza Rom italiani, Rom profughi dalla Bosnia e Serbia e Rom romeni. La maggior parte di loro non ha mai conosciuto il nomadismo, stile di vita che riguarda prevalentemente i Rom Sinti italiani e che è quasi scomparso a causa dello sviluppo dei trasporti che rendono possibile spostarsi velocemente mantenendo una dimora fissa anche per quei mestieri tradizionalmente itineranti, comunque in rapidissimo declino per lo sviluppo tecnologico ed economico degli ultimi 80 anni.

Con la pseudo-giustificazione culturale, falsa, del nomadismo sono quindi stati creati questi campi, nel quale una miriade di persone con culture, storie, famiglie, identità differenti è costretta a convivere per il solo fatto di appartenere ad un’etnia comune, che si compone in realtà di moltissimi gruppi eterogenei tra loro, tanto che per molti romanì parlare di etnia rom è semplicistico, riduttivo, inappropriato. I diversi gruppi nazionali infatti all’interno dei campi vivono spesso in aree differenti quasi separate da un muro invisibile. Mentre chi è arrivato dall’estero anche più di 30 anni fa, si riconoscerebbe spesso più nel proprio paese di origine che nella propria etnia, in particolare se si proviene da Paesi ex-comunisti, i figli e nipoti di questi sono costretti dal campo a riconoscersi come nomadi, anche se dal campo non si sono mai mossi, e come rom, e non come italiani, gruppo al quale apparterrebbero di diritto.

I campi hanno condizioni igienico-sanitarie pessime, ospitano container familiari di pochi metri quadri, sono lontani dai centri abitati ed il trasporto pubblico è quasi inesistente. Tali condizioni di degrado favoriscono l’emergere di una sub-cultura del campo, che si permea di illegalità diffusa e che, pur non riguardando la totalità degli abitanti dei campi, finisce per definirli tutti a livello identitario. Chi è povero non riesce ad uscire dal ghetto, complice il razzismo che non permette di trovare lavoro né tantomeno di affittare una casa. Chi invece vuole rimanervi o lo fa per interessi personali, potendosi dedicare ad attività illecite in luoghi che strutturalmente favoriscono l’emersione e la diffusione nonché l’impunità dell’illegalità, o semplicemente “non riescono” ad uscirne a livello psicologico. La psicologia del ghetto è stata ed è tuttora ampiamente studiata da sociologi e psicologi, ed è nei campi nomadi nomadi più viva che mai. La percezione del campo come ambiente sicuro, ovattato, protetto rispetto al mondo esterno popolato da gagé, i non rom, prevenuti e diversi, fa sì che la lotta per uscire dal ghetto non sia così tenace. Eppure quando la lotta riesce, la privacy e l’indipendenza conquistate fanno emergere nelle analisi delle famiglie che descrivono la loro esistenza precedente la realtà di ciò che è il campo. E quella realtà sembra una vita fa.

di Giulia Montefiore

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