Paola Clemente: morire nei campi per due euro l’ora

Ottobre 2016: viene finalmente approvata la nuova legge sul caporalato, che prevede, tra le altre cose, pene più severe per gli sfruttatori, maggiori tutele nei confronti degli sfruttati, e introduce la possibilità di confisca dei beni sia nei confronti degli intermediari illegali che anche, e soprattutto, nei confronti di datori di lavoro senza scrupoli disposti a calpestare ogni forma di diritto e dignità umana pur di ottenere manovalanza a basso costo. Uno strumento importante, quindi, per combattere un fenomeno di gravissime dimensioni, che arriva, come troppo spesso accade, troppo tardi. Non più strumento di prevenzione, quindi, ma di contrasto di una realtà ormai radicata che ha perso il conto delle sue vittime. Dagli immigrati clandestini ai regolari cittadini appartenenti ai ceti più disagiati, il caporalato troppo spesso rappresenta l’unica opportunità di sostentamento a cui troppi non possono rinunciare, a costo della vita stessa. Paola Clemente aveva quarantanove anni, un marito e tre figli. Una famiglia modesta, di quelle che faticano ad arrivare alla fine del mese, di quelle che fanno enormi sacrifici per mantenere una vita dignitosa. Di quelle disposte a qualsiasi cosa pur di garantire un futuro migliore ai propri figli, anche trascorrere un’intera vita di lavoro sui campi. “Perché quei soldi”, come dichiarato dal marito di Paola dopo la sua morte, “ci servivano; per come stanno le cose in Italia era denaro importantissimo, non potevamo farne a meno”. Questo faceva da sempre Paola Clemente: sveglia alle due di notte, due ore e mezzo di viaggio in pullman per raggiungere all’alba i campi di Andria, trecento chilometri al giorno tra andata e ritorno per ore e ore di lavori forzati, dalle cinque e mezzo alle dodici e trenta; altre due ore e mezzo di viaggio per tornare a casa, a San Giorgio Jonico, dove non arrivava mai prima delle quindici e, a volte, anche molto più tardi. Tutto questo per circa ventisette euro al giorno. Ritmi di vita e di lavoro che solo la forza della disperazione di una madre di famiglia può rendere sopportabili. Finché il fisico non ce la fa più. Erano circa le sette e mezzo di mattina del tredici luglio 2015, come ogni giorno Paola stava lavorando all’acinellatura dell’uva, ore e ore sotto il sole cocente con le braccia sollevate per eliminare i chicchi più piccoli e rendere i grappoli d’uva più belli, quando improvvisamente la donna si accasciò a terra, stroncata da un infarto indotto da condizioni di lavoro insostenibili. Molti i dubbi su quanto avvenuto in seguito; l’ambulanza che la trasporta direttamente al cimitero di Andria (dove i familiari la trovarono) anziché in ospedale, l’assenza di un qualsiasi referto, il magistrato di turno (che nemmeno si recò sul posto) che non dispone l’autopsia consentendo lo svolgimento dei funerali il giorno successivo; la notizia stessa della sua morte vergognosa che non trapela per settimane, quasi come se Paola non fosse mai esistita. Sembrava una storia destinata a restare confinata all’interno dei campi, ma la disperazione del marito di Paola, Stefano Arcuri, pian piano si è trasformata in desiderio di verità; grazie al supporto di Peppino De Leonardis, segretario della Cgil, sono state presentate denunce che hanno permesso l’avvio di indagini che hanno portato all’arresto di sei persone, e la risonanza mediatica di questo ennesimo dramma del lavoro ha contribuito alla presa di coscienza della realtà dei fatti, e della necessità di una revisione delle leggi in vigore in tema di sfruttamento del lavoro. In un paese dove sembra impossibile immaginare una realtà simile, che fonda la propria costituzione sul riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo e del diritto al lavoro, forse il sacrificio di Paola non è stato vano; a due anni di distanza dalla sua morte è stata donata al marito una copia rilegata della legge varata contro il caporalato, a testimoniare il suo prezioso contributo che, forse, servirà a salvare altre vite.

di Leandra Gallinella

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