Dalit: la negazione dell’uguaglianza

Dalit, Paria, intoccabili; tre nomi ad indicare la stessa disgraziata classe sociale alla base di una società regolamentata dalla fede induista che, al pari dell’Islam, detta le regole della convivenza civile. Secondo il credo induista Brahma, il Dio creatore, ha creato gli uomini traendoli da diverse parti del proprio corpo, determinandone così l’appartenenza alle diverse classi sociali e il ruolo all’interno della società. Ci sono i Brahmini, creati dalla bocca, custodi della scienza e sacerdoti; i guerrieri e governanti, originati dalle braccia, e i pastori, agricoltori e commercianti, originati dal ventre. Infine i servi, originati dai piedi. Secondo la tradizione i Dalit furono generati dalla polvere che ricopriva i piedi di Brahma, e per questo da sempre considerati impuri, capaci con il solo sguardo o con la propria ombra di rendere impuri membri delle caste più alte, e per questo emarginati dalla comunità. I Dalit dovevano vivere al di fuori del villaggio, non potevano utilizzare strade e fontane pubbliche, nemmeno preparare cibo per i membri delle caste. Solo intorno alla metà del XIX secolo, grazie alle lotte perpetrate da Gandhi, cominciò a diffondersi un movimento di riscatto in favore dei Dalit, che portò al riconoscimento della loro eguaglianza davanti alla legge. Ma fu solo con la proclamazione della Costituzione Indiana, nel 1949, che la pratica dell’intoccabilità fu definitivamente abolita e perseguita per legge. Almeno nella teoria. Perché nell’India moderna la realtà è molto diversa. In una società in cui antichi retaggi sono ancora ben lontani dall’essere scardinati, i “fuori casta” sono ancora oggetto di violenze, considerati inferiori, vittime di discriminazioni, anche da parte di quegli stessi organi legislativi che dovrebbero tutelarli. Nonostante sia illegale, i Dalit ancora oggi non possono bere dallo stesso bicchiere degli appartenenti alle caste superiori, anche se lavato, e spesso neanche sedere sulle stesse sedie. La misura della gravità della situazione è data da quanto accaduto poche settimane fa, quando un Dalit è stato picchiato a morte da un gruppo di estremisti solo perché in possesso di un cavallo (regolarmente acquistato), poiché un Dalit non è degno di possederne uno. Inseritosi in questo contesto di fortissime tensioni, un verdetto emesso il 20 Marzo scorso dalla Corte Suprema di Delhi ha scatenato la violenta reazione dei Dalit, culminata con una sanguinosa protesta esplosa lunedì 2 Aprile, e conclusasi con decine di feriti e sei morti. Armati di bastoni, mazze da baseball e spade hanno invaso le strade, occupato uffici governativi e bloccato un centinaio di treni in tutto il paese per protestare contro la decisione (presa, secondo la Corte Suprema, nell’ottica di una posizione maggiormente garantista) di vietare l’arresto immediato di chiunque fosse colto in flagranza di reato contro un Dalit, per consentire l’accertamento dei fatti prima di procedere con l’eventuale arresto. In sostanza, chiunque fosse colto nell’atto anche di picchiare, o tentare di uccidere, un Dalit, non può essere arrestato nell’immediatezza dei fatti. Una posizione che sovverte completamente le leggi a tutela dei più deboli, e che riporta di un passo indietro rispetto a tutte le conquiste ottenute finora. In una società in cui le classi sociali più deboli sono tutelate solo sulla carta, e i loro diritti fondamentali spesso e volentieri non riconosciuti, la posizione della Corte Suprema stabilisce, di fatto, la non eguaglianza degli uomini davanti alla legge, a favore di quelle caste che, evidentemente, dal mantenimento di una rigida scala sociale hanno tutto da guadagnarci.
Di Leandra Gallinella

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